Palermo e basta

Giacomo Cacciatore è uno scrittore testardo. Si ostina – lui che è di origini calabresi – ad ambientare le sue storie in una Palermo scomoda e per nulla folkloristica. Il suo ultimo romanzo, Figlio di Vetro (Einaudi), parla di mafia scavalcando moralismi e lezioncine di etica. Cacciatore è anche un polemista tanto impetuoso quanto riservato. Io, che sono suo amico, ne raccolgo quotidianamente gli stimoli e gli sfoghi ricambiando come posso. Oggi ho ottenuto il permesso di pubblicare una sua riflessione, a mio giudizio preziosa.

Carissimo Gery,
ti confesso che la Palermo che leggo su alcuni siti web e giornali non mi piace. Giriamola come vogliamo, ma ’sto giovanilismo nostrale del tipo “cucì, compa’” (quando non entra in ballo di peggio, cioè il mastro della broscia o il poeta della panella) non mi diverte né mi induce alla riflessione. Secondo me questi trasudano da ogni riga quell’autocompiacimento (nel parlare bene così come nel parlare male di Palermo) che mi sembra mooolto provinciale. Mi pare di vedere i cumpari che si girano i pollici e fanno piriti ai tavolini del bar della piazza, impantanati nei classici discorsi di cafè su quanto facciamo schifo e però… “ce la possono sucare”. E allora mi chiedo: ma questa cazzo di città non si può abitare e basta? Perché bisogna sempre farne un soggetto-oggetto filosofico da quattro copechi, il tema portante di un sito con centinaia di post, il perno di intere bibliografie, come se non esistesse altro al di là di Villabate e di Capo Gallo? Non si può essere abitanti di Palermo senza per forza essere “palermitanazzi” e “palermitanare”? E poi, questa presunta “distintività” dei palermitani, che ci sboccia irrefrenabile a ogni pie’ sospinto, come l’herpes da stress, è davvero una cosa così provata e significativa agli occhi del mondo da andarne fieri, farne argomento di conversazione o lamentarsene di continuo? Anche i newyorkesi, dico io, sproloquieranno ogni tanto su cosa significa essere newyorkesi. Ma la maggior parte del tempo la passano a lavorare sodo, diventare pittori, scrittori, registi, tassisti, drag queen, elaboratori di sistemi informatici che cambiano il mondo e l’assetto dell’economia internazionale, suicidi o, male che vada, serial killer. Se Palermo fosse una vera metropoli, nel senso di “città madre” di idee, che contagia innovazioni originali e memorabili al resto del globo, allora capirei tutto questo annacamento. Capirei la voglia o la necessità di spiegare e spiegarsi “che cosa è Palermo in tutte le sue strabilianti sfaccettature”. Ma lo vogliamo capire che non ci caca nessuno? Che questa è sempre stata una città in cui la gente che conta viene, mangia, defeca, si asciuga il culo, prende la nave e l’aereo e manco tira l’acqua? Che l’unica cosa che riusciamo a produrre ed esportare sono le scatolette di caponata e quattro bottiglie di vino? Che le persone che hanno avuto e hanno ancora qualcosa da dire e di cui far parlare, qui, si contano sulla punta delle dita? Che questo guardarsi di continuo l’ombelico e lo ziniero è la tomba delle potenzialità, dei talenti, della necessaria umiltà per crescere e produrre come si deve?
Lo stesso si potrà dire dei napoletani, per carità. Ma l’essere apparentati (fin dai tempi del regno delle due Sicilie, probabilmente) nella mentalità del “povero e superbo”, non mi sembra una gran consolazione. Non lo era prima, non lo è adesso.
Con universale amicizia,
Giacomo Cacciatore.
Italiano. Domiciliato in una città che si chiama Palermo. E basta.

M come macroeconomia… e mortadella

Quel divertentissimo istituto della fantascienza che è l’Istat ci comunica che il Pil italiano è cresciuto nel primo trimestre 2007 dello 0,3% rispetto al trimestre precedente. Tuttavia c’è l’avvertenza che sono state riviste “al rialzo le stime preliminari di una crescita dello 0,2%… rispetto al quarto trimestre 2006 si tratta comunque di un brusco rallentamento, visto che negli ultimi tre mesi dell’anno il Pil era cresciuto dell’1,1%… a livello tendenziale l’Istat ha invece confermato una crescita del 2,3%”.
Se avete avuto la pazienza di leggere fin qui, tirate un sospiro di sollievo: il peggio è passato. Sappiamo, o dovremmo sapere, che il Pil è la misura della ricchezza prodotta in un Paese. Cioè una cosa concreta, come l’ora che guardiamo sul nostro orologio o la taglia sull’etichetta della camicia che indossiamo. Una misura, praticamente un numero reale che esprime il valore del rapporto tra una grandezza e un’altra.
Il trappolone scatta quando l’orticello in cui ci addentriamo è quello della cosiddetta macroeconomia, cioè un sistema che si occupa per definizione di variabili, di effetti complessivi. Solo quando facciamo i primi passi ci accorgiamo di essere finiti in un deserto immenso e pericoloso, altro che orticello!
Se il Pil cresce, siamo più ricchi. Ma variabilmente e complessivamente. Se il Pil cresce, ma tradisce il livello tendenziale, vuol dire che saremo meno ricchi di quanto la fantascienza aveva previsto. Non è infrequente poi che l’Istat (che, ricordiamolo, sta per Istituto Studi Teorici Applicati al Tutto) si azzuffi col governo quando gli capita di prevedere un futuro che al premier di turno non piace. Questo complica le cose perché capire se un etto di mortadella nel 2010 ci costerà 500 euro non è più una questione di fantasia, ma anche di politica. La tentazione del qualunquismo è reale come l’ostinazione della massaia: abolire gli enti di previsione e fondare osservatori sulla politica dei prezzi, sulle tasse, sui beni. Sarebbe più semplice emanare un bollettino semestrale che dice: stando così le cose abbiamo tanto in cassa, i creditori che hanno pagato sono questi, i malfattori sono i seguenti. E lasciare il “livello tendenziale” e le “stime preliminari” agli eredi di Giulio Verne.

Per ricordare

Questo è uno spazio personale e – mi sforzo – onesto. In poche righe vi racconto cosa è successo negli ultimi giorni. Il numero di contatti si è moltiplicato. Mi sono chiesto: cosa avrò fatto di così straordinario? Ho consultato quel misterioso contatore che ho piazzato a fondo pagina e ho analizzato da dove provenivano quei clic. Cercavano in prevalenza una persona che non c’è più. Giuseppe Leopizzi, Leopizzi Giuseppe… Ne avevo parlato in occasione della sua scomparsa, dolendomi del fatto che un musicista di ricercato talento se ne fosse andato nel silenzio. Mi sbagliavo: il freddo del silicio di migliaia di computer sparsi nel mondo (perché i contatti arrivano non solo da Palermo, dalla Sicilia, dall’Italia) ha veicolato minuscoli frammenti di memoria che, tutti insieme, hanno ridato onore a un artista schivo.
Credo che abbiamo tutti il dovere di attaccare post-it nella nostra vita per non dimenticarci anche di chi ci ha sfiorato con una canzone, ci ha tenuto svegli con un libro, ci ha stupiti con un sorriso.
Nei tempi della telematica smodata e delle paparazzate online mi sono sentito utile. E – vi assicuro – non mi capita di frequente.

Questo è successo.

L’appello di Camilleri

L’appello di Andrea Camilleri per salvare la Val di Noto dalle trivelle di una compagnia petrolifera texana fa rumore. Ed è inaudito che le trombe della politica, i tamburi delle panze assessoriali, le schitarrate degli ambientalisti non siano riuscite, tutte insieme, a raggiungere un livello di protesta appena udibile fuori dai loro condomini.
Ci hanno tentato, a dire il vero, con la carta bollata e con i decreti. Hanno tentato di contrastare l’avanzata del gigante oleoso al quale, per follia o per tangente, avevano dapprima aperto la porta di casa. Diciamo che si sono pentiti in extremis, quando avevano il nemico già nel lettone della moglie.
Questi signori, presidente della Regione e assessori vari, sono veri esperti della protesta: organizzano marce, dichiarano a mitragliate, si muovono insomma senza scrupoli sul fronte della comunicazione. Eppure contro i texani della Panther si sono sentiti improvvisamente vulnerabili. Sarà che non parlano l’inglese…

E allora? Allora sono ricorsi al Maestro. Al verbo di una personalità che, fuori dalle orchestre della politica, ha un’ inimmaginabile potenza solistica. Quella dell’arte.
Se ne ricordino.

Quando c’era lui

Mi dicevo: parlottano in mattinata, poi si prendono un bell’aperitivo e le coscienze si sciolgono. Ho aspettato fino all’ora di pranzo. Ma niente, questi del G8 di stilare documenti a senso compiuto non ne vogliono proprio sapere. Sul clima, Bush si è ribellato a chi gli chiedeva qualcosa di concreto e si è espresso con una frase da quinta elementare: prima gli altri, umpf! Senza tener conto che chiedere qualcosa di concreto a Bush senza mostrargli un missile terra-aria o almeno la foto panoramica di Guantanamo significa dare aria ai denti.
Sullo scudo spaziale il presidente Usa ha sfoggiato la migliore dialettica berlusconiana: fino a stamattina la Russia deviava dalla rotta democratica, dopo mezzogiorno non era più una minaccia. Potenza del cocktail Martini.
A Bush non piace nessuno dei suoi compagnetti, sta trascorrendo una vacanza orribile. La Merkel, oltre che bruttina, è pure una fissata coi risultati e ha cercato di strappare fino a pochi minuti fa un impegno sul clima. Ma lui, George W, si annoia a morte, e non vuole, non vuole, non vuole fare i compiti! Gli manca tanto il suo amico Silvio. Quando c’era lui, tra foto con le corna e tastate di culi alle cameriere, almeno ci si divertiva.

Giuseppe Leopizzi

Vago nel web alla ricerca di uno spunto interessante. C’è il gran rifiuto del generale Speciale (un cognome veritiero) al trasferimento coatto alla Corte dei Conti. Il solito pm Woodcock (con un cognome che si intuisce veritiero) punta alla Massoneria ipotizzando legami con truffe internazionali. Dall’altro capo del globo, Paris Hilton (con un cognome che rimanda a veritiere propensioni per camere d’albergo) si mette in posa per l’ultima foto prima di affrontare qualche giorno di carcere. In Sicilia è morto Giuseppe Leopizzi (con un cognome poeticamente veritiero) fondatore degli Aes Dana, raro esempio di musicista innovatore e archeologo. E su questa notizia mi fermo. Ho visto ieri che su Rosalio, un blog di enorme popolarità, c’erano pochissimi commenti dedicati a questa perdita. Palermo non è mai grata agli sperimentatori, mi dico. Vado coi ricordi a vent’anni fa: io giovane critico musicale, lui promettente artista. Non siamo mai stati amici, ci siamo parlati poche volte ed è sempre stato per motivi che attenevano agli spartiti. Mi è sembrato un uomo in sintonia con le sue note: ponderato e complesso. Non so quasi nulla di lui, a parte un paio di cd che mi fece avere con un biglietto in cui si augurava che apprezzassi. Apprezzai nel mio silenzio rockettaro. Ora posso solo ricambiare, tardivamente, con questo post, con un titolo semplice e con una foto. Buona musica e buon viaggio Giuseppe.

Non può essere vero

C’è un tipo di persone che avvelena la nostra vita. Sono quelle che, specie negli ambienti di lavoro, smontano ogni vostra idea, intenzione. Sono i pompieri dell’entusiasmo, i custodi di una sola ragione, la loro. Di solito vi tramortiscono con una frase: “Non può essere vero”.
Potete esporre la teoria più logica, raccontare l’evento più ammaliante, loro saranno sempre lì, appollaiati sul loro trespolo da avvoltoi a ribadirvi che ciò che avete creduto interessante è una solenne cazzata.
Pensateci.
Generalmente occupano un posto superiore al vostro (nell’azienda o per censo) e si nutrono esclusivamente di questo: la facoltà di discettare su ogni argomento senza aver obbligo di argomentare. “Non può essere vero e basta”.
Non sono persone cattive. Semplicemente sono povere dentro. Leggono i quotidiani per necessità, non vanno al cinema, frequentano gente che conta, si presentano come intenditori di cibi classici, hanno tutti i volumi di Bruno Vespa, restano indifferenti alla musica, diffidano delle trasmissioni via satellite, considerano internet una parola tronca. Sono persone furbe di una furbizia mal riposta. Se non trovano una ragione per avere ragione si inventeranno una ragione per non avere torto, dall’alto del loro scranno. Lo scranno è fondamentale, se non lo avessero vivrebbero sotto una coltre di pernacchie. Siccome ce l’hanno potrebbero essere sepolti solo da post come questo. Ma – dicevamo – sono furbi e post come questo non li leggeranno mai. E se qualcuno gliene riferirà il contenuto, lo risponderanno candidamente: “Non può essere vero”.

Nuovi format televisivi

Qualche giorno fa, ha suscitato scandalo l’annuncio di un nuovo reality in Olanda dove un’ammalata di cancro metteva in palio il suo rene e tre concorrenti, in attesa di un trapianto, dovevano disputare la partita mediatica. Dopo la prima (e unica) puntata si è appreso invece che era un’iniziativa per sensibilizzare alla donazione degli organi e per far conoscere i problemi degli ammalati. In un’epoca in cui è reale solo ciò che passa per la tv si può pensare di organizzare altri format del genere.
Mafialand. I concorrenti devono arrestare i membri di una vera cosca e prenderne il posto fino ad arrivare al capo dei capi. All’ultima puntata si spiega che i concorrenti sono veri poliziotti.
Unipol line. Il viceministro Visco e il capo della Guardia di Finanza Speciale devono giocare a Monopoli, per una sola ora, riuscendo a non barare. Data la difficoltà dell’operazione si dovrà ricorrere a due controfigure, ma questo il pubblico non dovrà mai saperlo.
La lavagna. Quel genio con la Tbc, che ha seminato il panico in mezzo mondo solo perché voleva “viaggiare un po’”, viene chiuso in una casa con l’obbligo di consumare cento gessetti, tanti quanti sono i suoi neuroni, su una lavagna di 200 metri per 2. Può scrivere solo la seguente frase: sono malato, ma sono anche un perfetto idiota.

Lasciate che i pargoli… Una banda di ragazzini poveri viene adottata dall’unico prete pedofilo sfuggito al rigido sistema di controllo del Vaticano. La genialità del format sta nel sostituire, durante la notte, i bambini con una squadra di atleti senegalesi.

E nascondici nel male, amen

Ora che il famoso documentario sui preti pedofili è stato tolto dal monopolio di quel solito manipolo di pippaioli internettiani ed è stato trasmesso in tv (ad Anno Zero) si può capire meglio l’imbarazzo della Chiesa.
L’istituzione che alberga in Vaticano rifiuta la democrazia della notizia, ulula al complotto se le si sposta una virgola dalle sue pergamene, difende – ed è francamente orribile – i suoi orchi.
Il decreto che impone una linea di sommersione (e di corruzione) per tutti quei casi in cui preti hanno abusato di bambini/e appare come una delle vergogne più vergognose di cui si debba avere vergogna. Qui non si tratta di giudicare il caso singolo, ma di censurare un sistema che, a buon diritto, il giornalista della Bbc ha definito mafioso.
La Chiesa, nei suoi imperscrutabili apparati centrali, sapeva tutto in tempo reale. Tollerava, nascondeva e guardava dall’altra parte. Ci sono casi registrati in ogni parte del pianeta. C’è un parroco malvivente che ha abusato, da solo, di 134 bambini! Traduco la cifra in lettere, forse vi fa più effetto: centotrentaquattro, parola dolorosamente lunga.
La regola scritta prevedeva che il pedofilo fosse, al limite, trasferito. Non deferito. Mai denunciato.
Che sistema è quello in cui i crimini si nascondono? E’ un sistema malato e crudele, sfido chiunque a provare il contrario.
Ci siamo indignati, in Italia, a sentirci raccontare i misfatti di esponenti politici che rubavano dalle nostre tasche. Abbiamo tirato un sospiro di sollievo alla fine della Prima Repubblica. Siamo scesi in piazza per chiedere giustizia civile, economica e sociale, per la tutela dei diritti umani, per il poco lavoro e per le troppe tasse, per i Dico, i Pacs, gli Lsu, i Co.co.co, per bimbi rapiti o uccisi, per stragi senza colpevoli e per morti senza nome. Siamo esperti di ingiustizie e ci vantiamo di esser sempre professionisti di qualcosa che non dà fama favorevole: dell’antimafia, della protesta orchestrata, della raccolta di firme.
Siamo maestri in materia di Relativismo del reato. Possiamo evitare questa volta di perderci nei meandri di una fede che non c’entra niente e mostrarci intransigenti verso chi pretende di raccontarci l’aldilà credendo già di viverci?

I killer e le vittime

Più di trecento ergastolani hanno scritto al presidente Napolitano per protestare contro l’ergastolo e per chiedere, provocatoriamente, la pena di morte. Tra loro ci sono assassini di magistrati, di ragazzini, di giornalisti, di persone comuni che hanno scelto il giorno sbagliato per uscire fare la spesa. I firmatari sono anche camorristi, mafiosi, supertrafficanti di droga. Il mondo politico, Presidente in testa, ha risposto manifestando interesse per l’iniziativa. Si pensa – e da tempo – di sostituire il “fine pena mai” con un periodo di detenzione non inferiore ai trent’anni.
Sono una persona per certi versi scontata: mi piacerebbe sapere che ne pensano le vedove, gli orfani, gli amici e i compagni di lavoro delle vittime. La civiltà di un Paese sta nel saper affrontare con coraggio e senza equilibrismi questioni sostanziali con felice fermezza. Se si fa qualcosa per ridare speranza ai colpevoli si può fare altrettanto per i sopravvissuti alle loro violenze? Lo so, ogni volta in cui in Italia si dibatte sul basilare rapporto tra causa ed effetto ci si impantana nella banalità, nella rissa o, peggio, in tutt’e due.
La certezza della pena nel nostro Paese è un modo di riempirsi la bocca quando ci si trova davanti a crimini reiterati, orrendi, prevedibili. Se si ottenesse un certificato collettivo con un elenco di chi deve stare dentro e di chi invece non ci sta sarebbe tutto più semplice. Non si perderebbe tempo con la demagogia e si darebbero certezze a quelli che le esigono. Che, ricordiamolo sempre, sono le vittime.

P.S.
La foto è del grande Franco Zecchin.