Chi siamo e quanti siamo

La memoria vive da sé o necessita di simboli che la tengano viva? Il dibattito è aperto dall’alba dei tempi e si riapre a ogni commemorazione, convegno o fiaccolata per celebrare chi non c’è più.
Se fossimo un popolo dai solidi ricordi, riterrei i simboli ininfluenti. Siccome non lo siamo, penso che ogni pietra posta a identificare il luogo in cui un cammino – umano, ideologico, religioso, civile – è stato interrotto debba essere consona al ruolo che svolge. Una pietra non qualunque, insomma.
Si tratta, ovviamente, di una posizione personale.
L’idea di distaccarci dalla critica dei simboli perché c’è qualcosa di più importante a cui pensare mi rimanda più a un qualunquismo da sollevatori di cocktail a scrocco (fatte salve la buona fede e la correttezza di Roberto Puglisi) che a una reale sacralità del ricordo.
Dalle nostre parti, la violenza è matrigna dell’oblio, non riempie solo tombe svuotando vite, ma genera buchi di memoria comodi e, per molti, strategici.
I simboli sono necessari per tenere d’occhio il tempo che passa. E per contarci, cioé per vedere chi siamo e quanti siamo, ogni tanto.

La qualità della solidarietà

Lo scrittore Giacomo Cacciatore, stamattina, mi ha ispirato una riflessione.
Quella che vedete è una statua che dovrebbe raffigurare Paolo Borsellino. Ieri, nel corso della celebrazioni per l’anniversario della strage di via d’Amelio, l’opera è stata presentata al pubblico. Sarà affiancata, nelle intenzioni dell’artista che l’ha scolpita, da un’altra figura che dovrebbe ricordare Giovanni Falcone. Ebbene, senza offesa per l’autore, le cui intenzioni – immagino -sono più che nobili, chiedo che queste sculture non siano esposte. Per un semplice motivo: sono brutte!
Andate a vederle, vi prego.
L’antimafia delle idee, come quella dei fatti e della spontanea partecipazione, deve farsi anche filtro. Ben vengano tutte le iniziative, da qualunque parte, ma non tutte possono aspirare al medesimo impatto emozionale. Se io ascolto una canzone banale che grida “abbasso i mafiosi”, applaudo di certo, ma non mi sogno di farla diventare un inno nazionale. In questo blog c’è un mio piccolo contributo video alla causa dell’antimafia, non pretendo che venga proiettato in piazza Politeama: perché è un prodotto artigianale, che merita una collocazione modesta e ponderata. Sta bene dove sta, insomma.
Dobbiamo imparare a fare i conti con la qualità della solidarietà.

Fuori i nomi

Gustavo Selva, quello che una volta faceva il giornalista e che adesso scalda un posto al Senato nel settore Alleanza nazionale, non si dimette più.
Ricorderete il caso: per arrivare in tempo a una trasmissione tv, l’onorevole aveva finto un malore e si era fatto trasportare in ambulanza.
Ora Selva giustifica così il suo ancoraggio a una poltrona immeritata: “Me lo chiedono i cittadini, vogliono che resti”.
Fuori i nomi.

La cultura assetata

Ad Agrigento, nella città della sete, si produce un’acqua minerale raffinatissima. Ora, grazie a un accordo con la multinazionale Nestlè, l’imbottigliamento raggiungerà quote record. In pratica l’acqua delle gole secche agrigentine finirà sul mercato internazionale. Per capire il paradosso di questa notizia bisognerebbe comunque andare di persona ad Agrigento, un posto meraviglioso e arido, dove convivono storia millenaria e immondizie secolari. Il rimando ai relativismi e alle contraddizioni della “terra di Pirandello” è stato, nel tempo, il migliore alibi per sottovalutare la situazione della città. In un luogo in cui l’emergenza idrica non si è mai arrestata, le abitazioni sono costruite in funzione dei recipienti d’acqua che possono ospitare. La politica, tra sindaci e commissari, ha giocato inutili partite. La magistratura ha arbitrato spesso invano.
L’acqua fresca che scorre sotto la crosta polverosa di Agrigento è il simbolo della sciatteria colpevole che asseta e affama gli uomini tutti. Poi arriva un supermanager con l’accento nordico e risolve tutto. Per la sua azienda.

Perdenti

Ho simpatia per i perdenti, per una questione di banale autostima visto che la categoria mi ospita spesso. Il perdente puro è uno che gioca le sue carte, ma per sfortuna o imperizia non inanella mai un risultato utile. E se per caso ciò accade, è il preludio per una sconfitta ancora più clamorosa. In questa sottocategoria si trovano esempi di stupidità clamorosa, perché il perdente puro è talmente immerso nella propria valenza negativa da illudersi che ci sia qualcuno ancora peggio di lui (su cui trionfare): accade quasi mai.
C’è un altro tipo di perdente però che non mi ispira nessuna simpatia ed è il perdente impuro. Ha vinto quasi sempre nella vita, anche giocando scorrettamente, ma quando compie la mossa falsa che lo fa cadere pretende di sovvertire le regole del gioco. Non si arrende all’evidenza, non ammetterà mai un suo errore, fabbricherà nuove e nuove realtà che lo vedono grottesco trionfatore, seduto a un tavolo dove non c’è nessuno. Grande inventore di complotti, il perdente puro parla sempre di sé benissimo, s’inventa un passato fulgido e ha sempre qualcuno a cui dare la colpa della propria sconfitta. Anche se lui stesso lo ha appena strangolato.

Più pixel per tutti

Dalla Seconda repubblica a Second Life. Il ministro Antonio Di Pietro ha inaugurato l’era della politica virtuale con una conferenza stampa sull’isola fantastica di Never Land. In un auditorium discretamente affollato di avatar ha parlato di riforme, di maggioranza, di programmi. “Faremo qui gli incontri di partito, questa è libera informazione”, ha detto. Non ha tutti i torti.
La politica si evolve e anche l’ultimo pixel va sfruttato per raccogliere briciole di consenso. Nel dibattito virtuale però c’è un problema di verosimiglianza difficile da risolvere. L’identità veritiera, in mezzo alla calca dei fantasmi anonimi, è per un politico una prova complicata. Però se c’è un mondo in cui vale oro essere se stessi, è proprio quello in cui pochi lo sono.
Su Second Life ci sono star di Hollywood e cialtroni di ogni razza, si comprano terreni a un occhio della cyber-testa e si celebrano orge che finiscono sulle prime pagine dei giornali (veri, di carta). Se un ministro promette “più nickname per tutti” è una cosa, un’altra è se si impegna per la Tav.

La famiglia di Amato

Le scemenze non hanno un partito. E se lo trovano peggio per tutti. Il ministro Amato (ministro di un governo di sinistra) si è inventato che c’è una tradizione siciliana e pakistana di pestaggio delle donne (da parte degli uomini, per essere chiari). L’indignazione personale mi rimanda a quando Gianfranco Fini (esponente di punta del centrodestra) ruttò il famoso teorema secondo il quale i maestri omosessuali erano pericolosi per i bambini.
Ci vorrebbe, in questi casi, una sorta di clausola di salvaguardia dalle cazzate, come il bollino rosso che appare in tv quando ci sono film sconsigliabili ai minori. Invece va a finire che ne parliamo tutti, magari davanti ai bambini, amplificando l’effetto di dichiarazioni che meriterebbero quantomeno il dimenticatoio.
Vabbè, la bomba c’è, proviamo a disinnescarla.
Amato si richiama a una tradizione consolidata che nessun siciliano conosce. I pakistani avranno modo di riflettere, non sono in grado di farlo per loro. Le violenze domestiche attengono al codice penale, non alla geografia. Per il semplice motivo che inquadrarle in un contesto culturale e folcloristico equivarrebbe a giustificarle storicamente, in qualche modo. Abbiamo altro tipo di violenze ataviche di cui vergognarci, qui in Sicilia.
Amato fa riferimento, nella sua tardiva rettifica di stampo berlusconiano (cioè una rettifica che rafforza la notizia primordiale), alla famiglia maschilista e patriarcale precedente agli anni Settanta. In più il dottor Sottile vanta origini siciliane. Viene spontaneo chiedersi in che famiglia sia stato allevato. Se – mettiamo caso – io fossi cresciuto con genitori che odiavano il pesce e, una volta diventato ministro, avessi fatto un manifesto per dare il voto alle sardine, il mio comportamento sarebbe patologicamente normale. E se, in ossequio al luogo comune “donna baffuta sempre piaciuta”, avessi promosso una campagna per lo sgravio fiscale sui rasoi sarebbe stato più o meno grave? Ecco, nel governo ci vorrebbe qualcuno che facesse qualche domanda ad Amato. E che lo accompagnasse dolcemente verso l’uscita.

Tutti gli anonimi del Presidente

Vi racconto una breve storia e cerco di darvi qualche spiegazione. Ieri su questo blog si è scatenata una polemica che nulla aveva a che fare con l’argomento del giorno. Tutto è cominciato nella mezza mattinata quando ho avuto l’incauta idea di andare a visitare il sito di un importante esponente politico del centrodestra che, per convenzione, chiameremo il Presidente. Ho letto un post che mi sembrava interessante e – errore madornale! – ho osato dire (anzi scrivere) la mia, con tanto di nome e cognome. La pattuglia degli anonimi fedelissimi di questo onorevole mi ha dato subito dell’arrogante, del presuntuoso e mi ha accusato di fare pistolotti sul politichese. Passi.
In più si è scatenato un attacco al mio blog che mi ha costretto ad eliminare gran parte dei messaggi perché ingiuriosi (li ho comunque conservati, per quel che valgono). Questo è accaduto e lo scrivo solo per dare una risposta a quelli che ieri chiedevano cosa stesse succedendo.
A margine, c’è spazio per una minima riflessione sull’evanescenza di certi galoppini, di cui – sono certo – neanche il Presidente sarebbe fiero. Il dibattito politico è una cosa seria. Se c’è il dissenso e si può argomentare senza il timore di prendersi uno sputo in faccia, il dibattito diventa interessante. Se invece senti le gole che raschiano quando tu non hai nemmeno finito di dire, è bene defilarsi.
Ps.
Non sono di centrodestra, ma ho spesso difeso le ragioni di esponenti del centrodestra o criticato idee e opere del centrosinistra. Ecco qualche esempio: http://gerypa.blogspot.com/2007/06/sodomia-e-pensionati.html http://gerypa.blogspot.com/2007/06/m-come-macroeconomia-e-mortadella.html http://gerypa.blogspot.com/2007/05/al-mancato-sindaco-di-palermo.html http://gerypa.blogspot.com/2007/05/il-governo-strabico.html http://gerypa.blogspot.com/2007/04/facciamo-che.html http://gerypa.blogspot.com/2007/04/satira-e-buon-senso.html http://gerypa.blogspot.com/2007/03/cuffaro-e-la-coppola.html http://gerypa.blogspot.com/2007/02/opposizione-contro-se-stessi.html http://gerypa.blogspot.com/2007/02/vi-siete-parlati.html http://gerypa.blogspot.com/2007/02/la-controfigura-di-diliberto.html

La coesione e la ragione

La città in cui vivo è stata teatro, nei giorni scorsi, di un Flash Mob cioè di una cosa semplice da fare ma complicata da spiegare.
Il fatto. Un centinaio di ragazzi si sono radunati in piazza e, al segnale stabilito, si sono gettati a terra per qualche secondo scattandosi fotografie. Poi si sono dispersi.
La spiegazione. Questo genere di manifestazione, che ha preso piede in tutto il mondo, non ha scopi politici né sociali e viene inquadrata nell’ambito della cosiddetta libertà d’espressione.
Un paio di riflessioni. Un’azione corale con una discreta forza d’aggregazione non va mai presa sottogamba a patto che abbia almeno un recondito significato. Cosa volevano mandare a dire quei trecento e passa che hanno assaggiato il cemento di piazza Politeama? Ho spulciato in blog e siti specializzati e la risposta che ne ho ricavato è: nulla, a parte “ritrovare uno spirito di coesione”. E a cosa serve la coesione a tempo super-determinato (meno di un minuto)? L’impressione è che nessuno dei partecipanti a un Flash Mob abbia l’intenzione di farsi un’idea precisa. La rapidità d’esecuzione, il reclutamento online, l’esigenza di fotografarsi/filmarsi e l’addio repentino sono, in una singolare sovrapposizione, causa ed effetto del fenomeno. Il Flash Mob cioè nasce e muore mentre lo si celebra, in un lampo. E di quell’attimo non lascia che emozioni senza emozione. Perché la coesione e la ragione non sono soltanto parole che fanno rima.

Come Strega comanda

Il premio Strega a Niccolò Ammaniti per “Come Dio comanda” è un premio alla carriera per uno scrittore ancora giovane. Siamo nell’ambito dei gusti personali e della libera (e spero sensata) critica quindi posso dire che il prestigioso riconoscimento letterario è andato al meno entusiasmante dei romanzi di Ammaniti. Lo avrebbe meritato ampiamente per “Io non ho paura”, ma soprattutto per quel capolavoro che è “Ti prendo e ti porto via”.
“Come Dio comanda” è una storia solida (e ponderosa anche in termini di carta) dove c’è tutta la maestria del narratore. Ci sono personaggi ben scolpiti, ci sono situazioni che si intrecciano senza ingarbugliarsi.
Però, alla fine, prevale troppo la scrittura. E’ come se l’autore – presagendo un esito letterario così felice – a un certo punto abbia scansato le vite che ha raccontato e sia salito lui sul palco di quella notte tempestosa che squarcia il gran finale del libro.
Ma Ammaniti è un grandissimo narratore e gli si può perdonare qualcosa.