Sesso sesso sesso

Ho letto ieri di recenti studi, con annessi libri in vendita, su come migliorare la vita sessuale. Quando mi trovo di fronte ad argomenti di questo genere divento preda di una curiosità scimmiesca a tal punto da provare quasi vergogna. E – vi assicuro – non per il motivo che perfidamente potreste immaginare.
Insomma, dopo anni di studi, ricerche, esperimenti su uomini animali e cose, gli esperti hanno fatto le seguenti inaudite scoperte: al sesso (inteso come attività) fa bene l’esercizio fisico e fa male il fumo; l’eccesso di alcolici è vietato; è fondamentale che la coppia trovi nuove fantasie; se le cose non funzionano è bene rivolgersi a uno di loro (uno degli esperti); e, soprattutto, lo stress è veleno.
Fatta salva la buona fede di questi ricercatori, c’è da chiedersi con chi hanno avuto a che fare (personalmente e professionalmente) sino a prima di iniziare questi studi.
La mattina vedo correre, in calzoncini e maglietta, centinaia di padri di famiglia e, dalle loro facce, dubito che stiano pensando a una serata focosa. Le sigarette (o i sigari di clintoniana memoria) possono essere utili in un rapporto solo se stanno ben lontane dalla bocca e soprattutto spente. Quelli della Vecchia Romagna ci hanno fregato per decenni, spacciando un superalcolico per “il brandy che crea un’atmosfera”. Le fantasie nella coppia sono fondamentali, anche se ormai sembra che la più popolare sia quella su come occultare il cadavere del coniuge. Andare dal medico per dirgli “dottore, sa una cosa? Non mi si drizza dal 1983” è la cosa più semplice del mondo, suvvia. Ci sono vari modi per combattere lo stress: uno di questi è lavorare di meno. Ma chi non lavora non fa l’amore. Azz, ci ha fregato anche Celentano.

Amici

Ho rivisto amici che non incontravo da trent’anni. E’ un bel sollievo confrontare le proprie rughe con quelle degli ex ragazzini con i quali hai condiviso la tua gioventù. Ed è una meravigliosa sorpresa scoprire che, in fondo, tu per loro non sei cambiato.
Quanti amici di infanzia abbiamo abbandonato per inerzia, costrizione, o per necessità geografica? Vi siete mai fermati a pensare quante persone, che hanno segnato il vostro cammino negli anni fondamentali della vostra felice incoscienza, vorreste rivedere?
Il tempo – ho capito con colpevole ritardo – è un giudice sommo: diffidate di chi cerca di azzerarlo o di renderlo invisibile. Allontanate immediatamente tutti quelli che si pongono come misura assoluta, con la protervia – ben nascosta – di rendere il presente omnicomprensivo. Siamo, anche, ciò che siamo stati. E nessuno può toglierci le corse in Vespa, le risate in spiaggia, le prime ubriacature, le mezze parole che ci fanno riconnettere con un mondo distante anni luce. Diamoci tempo per i ricordi, ci aiutano per il futuro, senza rimpianti se ben collocati.
Questo – lo so – non è un post popolare. Ma sono felice di aver rivisto i miei amici, che sanno poco di ciò che faccio. Per loro vado bene come andavo. E per questo li ringrazio.

Il revisionismo degli anni Settanta

Il pensiero mi tormenta da qualche tempo. Il mese scorso, quando si è acceso il dibattito sul blog del bandito Vallanzasca, il pensiero si è sublimato nella seguente considerazione: in Italia c’è una sorta di revisionismo dei crimini commessi negli anni Settanta. Questa necessità di correggere ricostruzioni e tesi correnti, quindi dominanti, non risponde – credo – a esigenze politiche. Non è un colpo di spugna sulla storia, ma una sbianchettatura con conseguente riscrittura. E’ qualcosa di peggio rispetto all’oblio, è un’operazione sottile di falsificazione in cui il male non era alla fine troppo male e il bene era così così. Se ci pensate, la considerazione di cui godono molti ex brigatisti ed ex terroristi neri (dentro e, purtroppo, fuori dalle celle) è un segnale chiaro. Se l’assassino di allora era anche uno che masticava una ideologia, oggi lo si guarda più come intellettuale dissidente che come pregiudicato. Non voglio fare nomi, per un semplice motivo: se anche dovessi, in quest’ambito, portare un paio di esempi (ce li ho qui, sulla punta delle dita), mi sentirei in dovere di scrivere almeno il triplo delle righe sulle loro vittime. E siccome delle vittime – per un crudele gioco di informazione e di audience – si sa sempre meno rispetto ai carnefici, ammetto di non essere preparato a sufficienza.
Un omicidio degli anni Settanta alla luce di molti nostri contemporanei ha tinte meno cupe di un delitto di oggi. I proiettili alla testa di un sindacalista o al cuore di professore universitario hanno un effetto meno devastante se esplosi negli anni di piombo. Il nero del lutto delle vedove colpisce solo se lo si guarda sulla tv a colori, eppure sempre nero è.
Mi piacerebbe se qualcuno mi dicesse che sbaglio, che la mia è una sensazione fallace. Ne sarei felice, perché potrei tornare a godermi il ricordo di un’epoca che, artisticamente, ho adorato.

Stadi chiusi per decenni

La domenica appena trascorsa impone una riflessione franca e senza peli sulla lingua. Un giovane tifoso è stato ucciso nei pressi di un autogrill per un tremendo errore da un agente di polizia stradale: per una folle concatenazione di eventi la violenza è poi esplosa a Bergamo e Milano e soprattutto a Roma, dove fanatici si sono scagliati contro stazioni di polizia e la sede del Coni. Altro mi sfugge – l’aggressione ad alcuni giornalisti, le violenze in alcuni campi minori – ma la sostanza è indigeribile, come il fanatismo senza un dio, la mente senza ragione.
Siamo un Paese in emergenza, un coagulo di micce innescate che aspettano solo un fuoco (magari fatuo) per sfogarsi nella detonazione. Qualcuno dovrà pure dirlo, alla faccia delle dichiarazioni di facciata: la morte del povero Gabriele Sandri non c’entra nulla con gli stadi. Era uno che andava a una partita, certo, ma a quale titolo le “tifoserie” (virgolette d’obbligo) hanno deciso di riscattarne la memoria? Se io vengo ammazzato da un agente per errore mentre vado al supermercato, ciò legittima il saccheggio di tutti i supermercati italiani? E soprattutto si è mai vista una mobilitazione di massa contro gli assassini organizzati, contro le bande, le cosche, le consorterie mafiose dei nostri quartieri? E’ mai stata organizzata una spedizione punitiva di ultras, o altri presunti imbecilli, a danno di criminali conclamati come certo non sono le nostre forze dell’ordine?
La risposta cumulativa è: no.
Perchè siamo in un ambito criminale e idiota (il peggiore!) come quello di certo tifo organizzato, che crede di legittimare ogni azione con la prevaricazione vigliacca del numero. Siamo in tanti quindi imponiamo la nostra legge. Siamo in tanti e ce ne fottiamo. Siamo in tanti e rompiamo il culo a tutti. Così funziona in Italia.
Davanti a uno scenario così triste e pericoloso si impongono scelte drastiche. La stessa intransigenza che lo Stato sbandiera nel perseguire il colpevole della morte del giovane tifoso va usata per disinnescare le micce di violenza becera che si aggirano nei pressi dei nostri stadi. Il calcio è un fenomeno accessorio nella vita di una nazione – lo dice uno che lo apprezza – quindi se ne può fare a meno, se le circostanze lo impongono. Ci vogliono stadi chiusi per decenni, squadre retrocesse in serie Z, tifosi in manette, per costruire uno scenario di gioco in cui ancora ci si può divertire. Perché è di un gioco che stiamo parlando, lo vogliamo capire?

Un delitto di "fusione"

Ho seguito le cronache sul giallo di Perugia e, letterariamente parlando, ne ho ricavato l’impressione di una vicenda intricata e ben equilibrata dal punto di vista investigativo.
Breve parentesi: parliamo di un delitto tremendo che spande una macchia di dolore indelebile per amici e parenti della vittima, la povera Meredith; ma per le considerazioni che seguono dobbiamo spogliarci delle emozioni e concentrarci su indizi e moventi.
I tre indiziati, per i quali ieri il gip ha convalidato gli arresti, sono due fidanzati, l’americana Amanda e il pugliese Raffaele, e il cittadino congolese Patrick. Nell’ordinanza del gip si fa riferimento alle diverse versioni che, nel giro di breve tempo, Amanda e Raffaele danno di quella sera e in particolare di quell’arco di ore, dalle 21,30 a circa mezzanotte del primo novembre. Per farla breve, i due cambiano tesi, con un certo impegno, da un giorno all’altro. E se l’orario notturno degli interrogatori – si fa così, è una regola non scritta dell’indagine – può costituire un’innegabile pressione psicologica, il ricordo dei luoghi e delle compagnie frequentati in un giorno così cruciale non può essere evanescente, come invece si evince dalle testimonianze dei due ragazzi. Ciò ha indotto – giustamente – il giudice a porsi una domanda: perché questi ragazzi mentono? Colpevoli o no, i ragazzi infatti mentono, per semplice constatazione dei fatti. E a poco può valere, in sede giudiziaria, la giustificazione da loro invocata dello stato di confusione dovuto al consumo di hashish: uno che si fa le canne ricorda o non ricorda, è difficile che ricordi, poi corregga, poi corregga ancora…
Patrick ha un ruolo delicatissimo. Secondo la testimonianza di Amanda lui avrebbe avuto una responsabilità primaria nell’assassinio, con la complicità (ma questo Amanda non lo dice, lo ipotizzano i magistrati) di Raffaele. L’alibi del congolese è fragile: dice di essere stato al lavoro nel suo pub, ma il primo scontrino che rilascia è delle 22,29, un orario che non lo scagiona. C’è tuttavia un elemento che non va sottovalutato: al momento, tra le tracce trovate nell’appartamento di Meredith non ne esiste una sola che riconduce a lui. Così non è – stando almeno alle prime risultanze –per Raffaele: un coltello a lui sequestrato è compatibile con le ferite mortali sul corpo della vittima e almeno un’impronta sulla pozza di sangue potrebbe essere stata lasciata da una sua scarpa.
Nell’inchiesta ci sono altre deduzioni, molte: i cellulari spenti all’unisono dai due fidanzati intorno alle 21,30 della sera del delitto, alcuni post “profetici” dei loro blog, incongruenze sul numero delle persone presenti nell’appartamento, cambi di abbigliamento sospetti, il “desiderio di Patrick di congiungersi carnalmente con una ragazza che gli piaceva e lo rifiutava”, Meredith appunto.
Il movente è il più difficile da portare in un’aula di tribunale: un misto di passione insana e pulsione irragionevole. Buio su tenebra, insomma.
Più che un delitto imperfetto, quello di Meredith sarebbe un delitto di “fusione”, dai contorni inconsistenti come il fumo di troppe canne. Ora saranno le perizie e il lavoro di menti lucide a diradare le nebbie.
Mi chiedo: voi che ne pensate?

L’imbecille travestito da artista

Per il linguaggio usato questo post è destinato a un pubblico adulto.

Un coglione travestito da artista, di cui non faccio il nome per non fargli ulteriore pubblicità, ha organizzato una mostra esponendo un cane (vero) legato a una corda. L’atroce originalità dell’allestimento consiste nel fatto che il cane dovrà morire di fame davanti ai visitatori. Per rendere più scioccante la sua performance da testa di cazzo, il lurido in questione ha rivestito i muri di croccantini che, ovviamente, il cane non può raggiungere. C’è da qualche settimana una mobilitazione nel web per bloccare questa vergogna, probabilmente il cane sarà già morto. La beffa è che questo imbecille è stato invitato alla biennale d’arte del Centroamerica del 2008. Ci sono almeno due modi per impedire che ciò accada: il primo è firmare questa petizione, il secondo è prendere questo delinquente a calci in culo se capita di incontrarlo. Un calcio per uno, lo rispediamo nel tugurio in cui merita di rimanere confinato. A mangiare croccantini per cani.

I decaloghi

La polizia ha trovato nel covo del boss Salvatore Lo Piccolo un decalogo del perfetto mafioso. Ve lo propongo con qualche spunto per un contro-decalogo da uomini normali, insomma non di onore.
Primo. “Non ci si può presentare da soli a un altro amico nostro, se non è un terzo a farlo”. Evitare i terzi incomodi, sempre.

Secondo.“Non si guardano mogli di amici nostri”. Le mogli dei nostri amici si guardano con riguardo.
Terzo. “Non si fanno comparati con gli sbirri”. Gli sbirri si rispettano. E, più degli amici, si possono chiamare nel momento del bisogno. Accorrere è il loro mestiere.
Quarto.“Non si frequentano né taverne e né circoli”. Taverne e circoli sono posti in cui può essere piacevole, ogni tanto, perdere tempo.
Quinto. “Si ha il dovere in qualsiasi momento di essere disponibile a Cosa nostra. Anche se c’è la moglie che sta per partorire”. E’ utile spegnere il telefonino nel corso della giornata. A meno che la moglie non stia per partorire.
Sesto. “Si rispettano in maniera categorica gli appuntamenti”. Ci sono appuntamenti a cui è bene mancare: è un ottimo modo per rimediare in extremis agli errori.
Settimo. “Si deve portare rispetto alla moglie”. Se uno prende moglie è perché la ama, altrimenti è, nel migliore dei casi, scemo.
Ottavo. “Quando si è chiamati a sapere qualcosa si dovrà dire la verità”. La verità è spesso parente stretta del dolore: somministrare con cautela.
Nono. “Non ci si può appropriare di soldi che sono di altri e di altre famiglie”. Non rubare, l’ha già detto qualcuno ben titolato.
Decimo. “Non può far parte di Cosa nostra chi ha un parente stretto nelle varie forze dell’ordine, chi ha tradimenti sentimentali in famiglia, chi ha un comportamento pessimo e che non tiene ai valori morali”. Chi fa parte di Cosa nostra non merita un parente nelle forze dell’ordine, ha un comportamento pessimo, non tiene minimamente ai valori morali.

Alibi e pizzini

Nel covo del boss Salvatore Lo Piccolo sono stati ritrovati documenti e pizzini che fanno riferimento a molti commercianti che pagano il pizzo e a persone incensurate che hanno un ruolo in Cosa Nostra. Possono adesso cadere molti alibi che hanno frenato la lotta al fenomeno mafioso, primo tra tutti quello della sottomissione forzata degli estorti. Il procuratore di Palermo, due giorni fa, aveva esortato i commercianti a ribellarsi approfittando della debolezza della mafia appena decapitata. Oggi c’è un motivo in più per non sottostare al ricatto: i nuovi nomi di chi paga ci sono, tra poco –speriamo – saranno pubblici. Che senso ha giocare ancora a nascondino?
Le carte “fresche” di Lo Piccolo sono un patrimonio di conoscenza importantissimo: c’è lo stato delle cose, c’è la fotografia più recente della vergogna mafiosa, c’è la prova più pesante del tradimento delle leggi dello Stato.
Adesso via alla ricerca dei riscontri, poi rapide verifiche e una bella scorta di manette. Tira una bella aria a Palermo, finalmente.
P.S. Cari magistrati della Procura, smettetela di farvi la guerra. Avete tanto di quel lavoro da svolgere che per azzuffarvi dovreste mettervi in ferie. E in questo momento c’è bisogno di voi tutti.
Ma di questo parleremo un’altra volta.

Il mondo di Sandro Lo Piccolo

Salvatore Lo Piccolo, erede del boss Provenzano, finisce in trappola. E mentre gli agenti della sezione Catturandi della squadra mobile di Palermo lo arrestano, suo figlio Sandro gli grida “Papà, ti amo”. Il dettaglio non passa inosservato. Primo, perché il giovane è un criminale con un ergastolo alle spalle e, pure lui da latitante, partecipava con il padre a un summit di mafia. Secondo, perché ci catapulta nei meandri, difficilmente esplorabili, della razionalizzazione dei sentimenti. L’amore di un figlio verso il padre non può essere messo in discussione, è uno di quei sistemi assoluti che può condurre con uguale forza alla felicità come alle nefandezze più impensabili. E’ tutto e troppo, è completezza e annientamento, biologia ed assioma. Nel grido del trentenne Sandro c’è, molto probabilmente, amore vero, incondizionato. Ciò non fa di lui una persona umanamente meno peggiore rispetto a ciò che la sua fedina penale ci racconta. Amare, come sappiamo, non dà patenti né costituisce attenuante. E’ il contesto nel quale questo sentimento si dispiega che, secondo me, può toglierci dall’imbarazzo di paragonare il nostro sentimento al suo. Lo Piccolo junior (scritto così sembra una tautologia) dichiara il suo amore al genitore mentre lo vede cadere, dopo aver condiviso con lui crimini e latitanza. Quel “papà, ti amo” è il grido doloroso di una resa definitiva, il suggello di una vita impossibile. Il suo sentimento è tremendamente umano, quanto disumano è l’ambito nel quale è maturato. Il padre come mito criminale, un capo imprendibile, la violenza come legge, gli altri come vittime o avversari: il mondo infimo di Sandro Lo Piccolo si sgretola con l’arrivo di quegli uomini armati e mascherati che vengono a catturare suo padre. Lui non lo saprà mai, ma in fondo sono venuti a liberarlo.

Ali ai piedi

Uno dei miei sogni è correre la maratona di New York. Portarla a termine, se non altro. Ho sempre avuto una certa confidenza con scarpette da runner e calzoncini, nel senso che ho macinato moltissimi chilometri a piedi nella mia vita. Non ho mai trovato il coraggio di affrontare la lunga distanza, mi sono cimentato qualche volta nei 21 chilometri. E, nelle chiacchiere con gli amici, sfodero più orgoglio nel dire del mio “storico” 1’,37” (mezza maratona di Roma del 2004) che dei miei libri.
Ieri ho letto le cronache dell’edizione newyorkese di quest’anno: un keniano che vola a 3 minuti per chilometro, una neomamma inglese che bissa il successo, gioia e sudore, muscoli e cervello. Mi sono sentito bene.
La corsa è un ottimo metodo per pensare, per scaricare immondizia cerebrale, per drogarsi di positività. Quando siete tristi o demoralizzati, provate a mandare tutto a quel paese e mettetevi in moto. Poi magari mi dite.