Obama chiama Torta

Dear Roberto, solo now ho trovato il time per write you. This campagna elettorale, con isterica di Clinton, che un colpo cry, un colpo smile, mi fa girare the balls. Volevo only dirti che sono very happy di tua candidatura. So che we can farcela. Force and courage.
Tuo sincerely Obama


Caro Gery, cari tutti
ho ritenuto opportuno riportare la lettera che ho testè ricevuto da Obama. L’eco della mia candidatura ha varcato montagne ed attraversato oceani. Come da rassegna stampa che allego, tutto il mondo parla di Roberto Torta. Tutto il mondo tranne che i giornali locali: ma questo, per certi versi, me l’aspettavo. In questi giornali si dà spazio alla zia peppina che segnala il marciapiede rotto. So per certo che un gruppo di collaboratori è stato assoldato per rompere tubature, spostare cassonetti. Dalle discariche ogni notte vengono prelevate carcasse di auto e di elettrodomestici. Posizionate nei posti giusti della città permettono a chi ha denunciato il fatto, di avere la foto sul giornale. Diffidate.. si tratta di un gruppo di azione ben organizzato. Se non fosse per questi malfattori Palermo non avrebbe una sola buca, nelle vie non ci sarebbe una sola montagna di spazzatura. Bisogna dirle le cose.
Ritengo altresì opportuno annunciare l’inizio del mio tour elettorale. Ho pensato a lungo quale potesse essere il mezzo adeguato. Le primarie hanno dato un esito che non lascia dubbi: i pattini.
Qualche rotella in più a un candidato non guasta mai.
Raggiungerò ogni anfratto della Sicilia. Partirò domenica a mezzogiorno da piazza Politeama con un gruppo di “sondine” , elettrici che ho selezionato personalmente affinchè i sondaggi siano veritieri ed immediati. Due le novità da segnalare: la Torta Card che sarà offerta agli elettori e la Tortino Card per l’iscrizione gratuita ai circoli. La prima darà diritto ad una candidatura nella mia lista, ma solo ai primi 100 che si dimetteranno dalle loro cariche attuali, in modo da riprodurre il sistema elettorale in vigore. L’altra darà l’iscrizione gratuita con un sorteggio finale. Non anticipo nulla perché mi copierebbero subito.
Amici, come direbbe Rocco, è dura. Ma chi l’ha dura la vince.

Contro i call center

Avete fatto caso come gran parte della nostra vita sociale sia regolata dai call center? Non c’è servizio che non sia filtrato da una voce sintetica, monocorde e falsamente rassicurante. Unica variante la musichetta di sottofondo.
Dopo un tempo estenuante di attesa e dopo essere stati costretti a prendere appunti per azzeccare l’opzione giusta, se si è nati con l’ascendente giusto, si riesce a parlare con un operatore in carne e ossa (e corde vocali). E qui si sfiora l’esaurimento nervoso.
Il principio di anonimato – anche se dall’altro lato del filo vi vengono forniti talvolta nomi di battesimo o codici identificativi a sette cifre – è la tomba di ogni speranza. Mi sono imbattuto in operatori che mi rimproveravano perché richiamavo nel giro di due ore: “E perché richiama? Deve seguire le istruzioni che le abbiamo dato la prima volta”, “L’ho fatto, ma non funziona”, “Non è possibile, chissà che ha combinato”, “Ma le dico…”, “Non dica, faccia!”, “Faccio!”, “Ha fatto male allora”.
Oppure ci sono quelli che quando si trovano alle strette (cioè quando sono costretti a dare risposte univoche) fanno cadere la linea.
O ancora trovi quelli esauriti in vena di confidenze: “Sapesse quante persone mi hanno chiamato oggi col suo stesso problema”, “E… lei che ha detto. Lo dica anche a me così risolvo tutto”, “Ho detto quello che le sto dicendo: che siete in molti con questo problema!”.
La casistica è infinita, come la lista dei numeri verdi.
Se ci fosse un partito per l’abolizione dei call center mi ci iscriverei col solo obiettivo di diventarne segretario nazionale.

Io corro da solo

Noi italiani passiamo per pigri. Sono sicuro che se potessimo aprire la mente di un tedesco o di un americano, alla piccola sottosezione “italiani” troveremmo immagini di Pulcinella lunghi distesi che si abboffano di spaghetti, suonatori di mandolino che socchiudono l’occhio al sole dell’alba e Sopranos che ammazzano i rivali senza scomporsi né allungare troppo la pistola. C’è un fondo di verità in tutto questo e una buonissima parte di approssimazione, come sempre accade nel reame dei luoghi comuni. Andiamo al fondo della (mia) verità. Se lo stesso straniero del pregiudizio decidesse di studiarci da vicino, probabilmente scoprirebbe che aveva ragione: la nostra pigrizia c’è, esiste, ma poco ha a che fare con lo spreco di acido lattico. È un’indolenza che investe piuttosto le idee di pronto uso – quelle che danno vita al colloquio quotidiano, anche banale – lo sforzo minimo necessario per formularle e soprattutto il linguaggio che serve a esprimerle. Funziona pressappoco così: qualcuno un giorno, plausibilmente in tv, risponde “assolutamente no/assolutamente sì” per comunicare consenso o negazione incondizionati a una domanda. Probabilmente suona bene. Probabilmente qualcuno penserà che è più moderno, nuovo e “fico” (ecco un’altro esempio di contagio linguistico risalente alla fine degli anni ‘70 che ha condizionato più coscienze del reverendo Jones). Più fico ed elegante dei semplici monosillabi cui siamo abituati. Deciderà così di usarlo in un’altra trasmissione. Il travaso dalla sacra ampolla del piccolo schermo alle tenere menti dell’italiano concettualmente pigro è, come sempre, cosa rapida. Implacabile. Presto ci saranno (o meglio, ci sono stati) migliaia di italiani che, dopo anni di salutare “sì, no, nì” e comodi cenni del capo, risponderanno: “Assolutamente sì. Assolutamente no”.
In questi giorni, il più papabile candidato al ruolo di idea di pronto uso e frase “fichissima” è l’“io corro da solo”. O almeno lo temo. Mi aspetto un “io corro da solo” detto dal mio fruttivendolo, un “io corro da solo” dal posteggiatore abusivo, eccetera. Perché chiedersi perché? L’ha lanciata Veltroni, la frase, l’ha ripetuta Casini, si litiga sul suo primato e ce ne offrono ripasso quotidiano tutti i giornali e le trasmissioni tv. Fico. Fichissimo. Proprio in questi giorni mi è capitato di leggere una notizia di pseudo-scienza: l’uomo in massa agisce come il gregge di pecore. Basta che qualcuno, in un luogo affollato, corra all’improvviso verso una direzione e tutti lo seguiranno senza nemmeno chiedersi come mai, o meglio ritagliandosi un perché immediato, su misura, che ovviamente poco avrà a che fare con quello di chi ha scatenato la corsa. Né sarà mai dato conoscerlo con chiarezza, questo perché scatenante. Ecco. Loro corrono da soli, ed è giusto che noi gli corriamo appresso. Insomma, noi corriamo da soli. Non si dica poi che gli italiani sono un popolo di pigri.

La tempesta dopo la quiete

Leggo un giornale dopo una settimana di purificazione.
Casini dà l’addio a Berlusconi e rischia, o raschia, al centro. Veltroni, nel nome di un Paese normale, prepara una squadra dove il più umile si chiama Benetton.
Non sono mai stato un appassionato di politica, diciamo che per non subirla ho scelto di seguirla quanto basta per non arrivare alle urne disarmato. La lettura di questo quotidiano mi ha tolto, in una ventina di minuti, gran parte delle energie accumulate in una sana vacanza.
Per fortuna, ho un bel poliziesco italiano da leggere: lì almeno il colpevole la paga sempre. E non ci sono parole all’aria per garantirsi l’impunità.

p.s. Ho una valanga di mail arretrate da smaltire, tra richieste di vario genere, petizioni, sfoghi, ingiunzioni, amici che minacciano di togliermi il saluto. Ho già cominciato. Prometto di rispondere a tutti, questione di tempo…

La lezione del procuratore

C’era una notizia molto importante su alcuni giornali di ieri. Il procuratore di Palermo, Francesco Messineo, in una lezione ai giornalisti praticanti della scuola universitaria Mario Francese ha attaccato due giornalisti di Repubblica, Alessandra Ziniti e Francesco Viviano, per aver pubblicato in anteprima il contenuto del libro mastro del boss Salvatore Lo Piccolo. Il procuratore, non contento di aver messo sotto inchiesta i due cronisti addirittura per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra, li ha definiti “apprendisti stregoni” per il loro supposto intento di stimolare una rivolta civile contro il racket delle estorsioni.
Non dovrebbe sfuggire la pericolosità su più fronti di tale ragionamento.
Primo, credere a un giornalismo che chiede il permesso di pubblicare le notizie significa rimpiangere per lo meno la Pravda degli anni Settanta.
Secondo, accusare di contiguità con la mafia Repubblica e i suoi giornalisti – piacciano o non piacciano Repubblica e i suoi giornalisti – è un’enormità che neanche Berlusconi finora aveva accarezzato col pensiero.
Terzo, una simile lezioni a una platea di giovani aspiranti cronisti è – a mio modesto parere – educativa quanto dieci gocce di Tavor a un neonato.
Quarto, parlare in questo modo in una scuola intitolata a un eroe (anche se purtroppo dimenticato) che ha sacrificato la sua vita proprio per un’informazione libera e coraggiosa richiede almeno delle scuse pubbliche.
Ammiro il lavoro che svolge la Procura di Palermo e sono molto felice per i risultati che ha conseguito contro la mafia e il malaffare. Ciò però non costituisce un lasciapassare per le stupidaggini che singoli magistrati possono dire e\o fare. Se il procuratore Messineo ritiene che certe fughe di notizie danneggino il lavoro dei suoi sostituti, non abbia la presunzione di impartire lezioni di un mestiere che non è il suo. Semplicemente avvii un’indagine all’interno dei suoi uffici, indaghi i suoi pm, perquisisca le case di carabinieri e poliziotti che lavorano con loro, intercetti le telefonate che partono dal palazzo di giustizia. Pensi al segreto professionale dei giornalisti, che è garanzia assoluta innanzitutto dei lettori. Pensi al dovere di riservatezza della sua categoria, che è garanzia assoluta innanzitutto degli indagati. E non provi a calpestare il diritto costituzionale della libertà di stampa.
Non è alzando la voce e facendo valere il proprio potere coercitivo che si insegna e si riscuote il rispetto. Questa è la lezione più importante che dovrebbe essere impartita a quegli apprendisti giornalisti.
OT Per qualche giorno faccio un pit stop. Il tempo di gonfiare le gomme, rabboccare l’olio del motore, fare il pieno di carburante… Alla prossima settimana.

La vera fiera del libro… mastro.

Caro Gery, cari tutti E’ stata una settimana molto travagliata. Lo scioglimento delle Camere e le elezioni nazionali mi hanno posto un bivio.
Ho ricevuto non so quante centinaia di telefonate. “Roberto, candidati alle nazionali”. “Tu sei l’uomo giusto al posto giusto”. “Tu sei il Premier che tutti vogliono”. “Tu, solo tu, puoi ridare fiducia al Paese”.
C’ho pensato. Oh sì, se c’ho pensato. Mi sono detto: visto che si candidano cani e porci, perché non posso farlo io? Ebbene: non ho ceduto. E non pensate che io non sappia abbaiare. So farlo. E mi rotolo nel fango come pochi.
Ma io rimango qui. In questa Regione che ha bisogno di me, prima di tutto per combattere il vero male della Sicilia: la magistratura diabetica.
Io voglio portare fette di Colombia in Sicilia. Voglio fare in modo che, proprio perché si avvicina la Pasqua, tra questi due Stati negli stati ci siano scambi reali, veri. Ebbene: di fronte a questo progetto, che è stato suggerito da una mia elettrice, una magistratura diabetica dice di no. Ma noi dobbiamo combatterla, cari amici elettori. Noi dobbiamo dire basta a questa magistratura che anziché giocare negli uffici, che fa? Se ne va in giro, in America, costringendo uomini di elevata caratura morale a tornare in Sicilia. Ma Santo Dio, abbiamo fatto tanto per esportare questi uomini, questi cervelli, in America. Abbiamo fatto tanto perché rappresentassero oltreoceano il volto della nostra regione e ora ce li rimandano indietro. Su questo c’è tanto da lavorare, amici. E il mio programma non lascia dubbio: i magistrati devono giocare a Tetris o al solitario, e solo una volta superato il record si potrà pensare di dar loro il Pacman. Ma non prima. Su questo sarò irremovibile. Pensate che siano giochi vecchi e ci voglia la playstation? Ma noi daremo loro il Commodore 64.
Io voglio aggregare valori. Voglio regalare non più buoni benzina, ma certezze. Voglio fare in modo che la pasta, nelle periferie, non arrivi più cruda. Ma cotta. Che se ne fa un povero disoccupato di 12 chili di pasta cruda se poi non ha il gas? La pasta deve essere cotta, possibilmente a forno perché non si scuocia. Un team di esperti cuochi sta mettendo a punto una cucina. Non vi anticipo nulla, ma stiamo pensando di trasformare il velodromo e Pizzo sella. E per un grande Pizzo sella, ci vuole un grande cavallo…
E infine la fiera del libro. Smettiamola, per cortesia, con questi divieti, queste diatribe inutili. Nella fiera che ho in mente io possono partecipare tutti: palestinesi, israeliani, egiziani, catanesi, ennesi. Ammetteremo chiunque, basta che paghi. Sarà la più grande fiera del libro. La fiera del libro mastro. E’ inutile dire che ad ogni visitatore sarà regalato un contenitore in tetra pak.
Amici, non preoccupatevi se in questi giorni non vedete me, ma Micci. Che la stampa sia asservita lo sappiamo. Mi stanno boicottando. Ma voi non disperate così come non dispero io. Se sarò eletto la Rai si chiamerà RaiS.
E unificherò i tre giornali regionali sotto un’unica, grande testata: il Torta setteveline.
Vota Torta.

Questa foto

Guardate questa foto. Turisti per le strade di New York. Giovani con le loro fidanzate. Una vacanza, uno scatto per ricordo, poi il ritorno a casa, alla vita di ogni giorno.
Shopping in una città straniera, cena al ristorante, dollari, calcoli sul cambio: “Ti ricordi quando c’era la lira? Ma quant’è un dollaro? Alla fine ci abbiamo pure guadagnato?”.
Amici da incontrare negli States. “Frank. Te lo ricordi? Dice che ha una casa bellissima”.
Il giro in limousine, perché New York è un’altra cosa vista dai vetri scuri di una macchina lunga quanto tre Fiat Panda.
La foto ci dice pressappoco questo. Ma c’è dell’altro che sta nascosto tra quei pixel. E’ un messaggio generazionale, una scheda sociologica, o più semplicemente una notizia.
La mafia è cambiata.
Le facce sono qualunque. Le compagnie sono mimetizzate. Anche i sorrisi sono diversi.
Ricordate l’espressione diabolica di una celebre foto di trent’anni fa in cui Totò Riina si fa ritrarre in piazza San Marco coi piccioni sulle mani? O le sequenze rarefatte del matrimonio di Leoluca Bagarella? O la posa enigmatica di Matteo Messina Denaro?
Passato.
Questa è l’immagine della nuova Cosa nostra.
Turisti per le strade di New York. Giovani con le loro fidanzate. Una vacanza, uno scatto per ricordo, poi il ritorno a casa, alla vita di ogni giorno.
Una vita di traffici, delitti, guerra allo Stato.

Discutete del Tetra Pak

Questo non sarà un post molto popolare, perché sono costretto a parlare di me.
Sono un giornalista professionista dal 1989 e da qualche anno cerco di fare lo scrittore e l’autore a tempo pieno. Mestieri difficili: molto sudore, pochi soldi.
Partorire un’idea, farla crescere nel miglior modo possibile, condurla per mano, assicurarle tutti i comfort possibili, sostentarla, consegnarla infine al suo destino maturo è una fatica immensa. La lettura non è uno sport popolare e gli incassi non permettono stravizi.
Quando si parla di narratori si pensa a caste, a consorterie privilegiate che fanno dell’invenzione un mestiere comodo: “Cosa ci vuole a raccontare una storia? Io ne ho decine di bellissime”. Quante volte mi sono sentito ripetere questa frase da amici o pseudo tali.
Ci vuole uno stomaco di ferro per digerire i sorrisini di chi ti giudica senza mai averti letto, mentre tesse le lodi del bestseller del momento, senza ovviamente averlo mai letto.
Ci vuole un etto di fegato in più dell’ordinario per immaginare di catturare ore della vita di un lettore sconosciuto e costringerlo a sorbirsi i tuoi aggettivi.
Ci vuole molta pazienza a vedersi tracciare la via da soloni della politica o da opinionisti dell’ultima ora: il rapporto con la propria città, il contesto sociale, la scuola di pensiero, il genere ibrido, lo stile conservatore o mancino…
Ci vuole un barile di bile per assistere alla lettura distratta di un manoscritto che è ti è costato anni di lavoro.
Ci vuole cuore da condividere anche se si è egoisti, perché una storia non funziona se non rispetta il principio di universalità.
Ci vuole voce per urlare che gli scrittori, tutti, famosi e non, sono esseri vulnerabili pur nel loro egocentrismo: vivono di fantasia, passano notti insonni a inseguire una virgola, cancellano per produrre, producono per illudersi di non essere cancellati come spesso pensano di meritare.
E’ facile buttarla in politica quando si parla di Israele alla Fiera del libro di Torino. E’ facile cedere agli estremismi quando si tratta (come ammoniva Giacomo Cacciatore ieri) di parole e pensieri. Il difficile è fare un passo indietro. E pensare che ogni forma artistica è sofferenza più che godimento, per chi la crea. Le nazioni, le religioni, le alleanze, la lingua sono un mero contenitore.
Ecco, cari polemisti dalla vista corta, discutete del Tetra Pak, ma non boicottate le idee.

L’intolleranza e l’idiozia

Una minoranza contundente che ha l’ardire di definirsi, a cortei sguainati, pacifista ha scatenato negli ultimi giorni un attacco inusitato contro gli organizzatori della Fiera del libro di Torino, il massimo evento letterario nazionale. Motivo? Il posto di ospite d’onore assegnato quest’anno a Israele.
L’argomento ha già suscitato molte autorevoli prese di posizione, da Claudio Magris a Magdi Allam, da Aldo Grasso a Fausto Bertinotti. Ho firmato il documento stilato da Raul Montanari (che riporto in coda a questo post), ma avrei voluto aggiungere alcune righe accanto al mio nome e cognome. Queste.
La tutela delle diversità è l’unico modo che abbiamo per dare un po’ d’acqua al giardino della cultura. La cultura non può avere colore, non si vernicia l’aria che respiriamo. L’intolleranza è la più inaccettabile forma di violenza imposta alle idee. E le idee sono gli unici ponti a prova di bombe intelligenti che uniscono New York a Bagdad, Londra a Kabul, Palermo a Berlino.
Chi vuole boicottare scrittori del rango di Abraham Yehoshua, solo perché non è nato a Liverpool, è un idiota che gode ancora nel farsi sodomizzare da un’ideologia defunta: potenza del rigor mortis.

Israele ospite del Salone del Libro di Torino 2008

Con questa firma esprimiamo una solidarietà senza riserve nei confronti degli organizzatori della Fiera del libro di Torino, nel momento in cui questo evento di prima grandezza della vita letteraria nazionale viene attaccato per aver scelto Israele come paese ospite dell’edizione 2008. L’appello a cui aderiamo s’intende apartitico, e politico solo nell’accezione più alta e radicale del termine. Non intende affatto definire uno schieramento, se non alla luce di poche idee semplici e profondamente vissute. In particolare, l’idea che le opinioni critiche, che chiunque fra noi è libero di avere nei confronti di aspetti specifici della politica dell’attuale amministrazione israeliana, possono tranquillamente, diremmo perfino banalmente!, coesistere con il più grande affetto e riconoscimento per la cultura ebraica e le sue manifestazioni letterarie dentro e fuori Israele. Queste manifestazioni sono da sempre così strettamente intrecciate con la cultura occidentale nel suo insieme, rappresentano una voce talmente indistinguibile da quella di tutti noi, che qualsiasi aggressione nei loro confronti va considerata un atto di cieco e ottuso autolesionismo.

Nelle mani di un pilota arrapato

In questo periodo mi capita spesso di prendere l’aereo. Appena sono a bordo, il primo pensiero (ossessivo compulsivo, come sindrome mi impone) è rivolto ai piloti. Hanno riposato stanotte? A casa tutti bene? Pranzo e cena regolari? Sono abbastanza svegli? E via delirando.
Alle medie avevo un compagno di classe simpatico e pacioccone. Un tipo goffo che però, appena saliva in sella a un vespino, era capace di inventare le acrobazie più incredibili. Lo rividi ai primi degli anni Ottanta. L’occasione fu un reportage sui giovani che sceglievano un mestiere tra le nuvole. Lui era lì, in un piccolo aeroporto “tecnico”, a macinare brevetti su brevetti. Mi invitò a fare un giro su una di quelle trappole a elica che credo rientrino nella categoria degli aeroplani bimotori (non vorrei scrivere una corbelleria). Insomma un velivolo in cui io magro come un grissino torinese e lui sempre più pacioccone entravamo a stento.
Fu un’esperienza lisergica. Una serie di flash dove la terra stava al posto del cielo, il mare girava tutt’intorno, le montagne sparivano e riapparivano dietro la carlinga, il cuore batteva nelle caviglie e i capelli (allora lunghi e soprattutto presenti) penzolavano verso il tetto della cabina.
Non ho più rivisto quell’ex compagno di scuola, ma so che adesso lavora per un’importante compagnia aerea.
Ogni volta che salgo su un aereo sbircio in cabina di pilotaggio per vedere se c’è lui, pronto ad abbracciarlo, cazzeggiare quanto basta e chiedergli se ha riposato, se a casa stanno tutti bene, se ha pranzato e cenato regolarmente, se ha sonno…
Oggi ho visto questo filmato messo online dal Sun e ho rimpianto l’esperienza lisergica di cui sopra. Almeno il mio amico non staccava le mani dai comandi e soprattutto non pretendeva di girare filmetti spinti mentre cabrava verso un mare travestito da cielo.