Sanremo secondo lei

Abbiamo seguito Sanremo. Tutti lo stesso, ovviamente. La differenza è se ci è piaciuto o no. Ma c’è qualcuno che il festivalone lo ha visto a modo suo. Mia suocera (nella foto, in stile riviera dei fiori), manco a dirlo. E il giorno dopo la finale me lo ha raccontato dalla sua angolazione. Vi riporto fedelmente il suo resoconto.

  • “Là dietro (cioè dietro il palco, dove secondo lei c’è il casinò, ndr) c’era Kadia Ricciardelli che si giocava i soldi. Lei si è sposata con Pippo Bau perché Pippo fa Sanremo e lei voleva andare al casinò. Ha il vizio del gioco, Kadia, ma non si gioca i soldi suoi. Gioca quelli di Pippo. Per questo si sono lasciati…”.
  • (dopo 5 minuti, nuova versione, ndr) “Kadia va a Sanremo e si fa vedere dai giornalisti per fare dispetto a Pippo, visto che hanno divorziato”.
  • (dopo altri 5 minuti, ulteriore versione) “Kadia pensava che Pippo la portava a Sanremo, ma lui non ce l’ha mai portata e per questo lei lo ha lasciato”.
  • “Pippo è pirchio (leggi tirchio, ndr) e si arrabbia che lei gli gioca tutti i soldi”.
  • “Piero Gianvretti (leggi Chiambretti, ndr) a Pippo Bau lo stuzzicava. Pippo non lo vuole più”.
  • “Non si è visto Al Bano a questo festival. Ha litigato con Pippo, perché Al Bano al festival ci voleva andare ma lui non lo ha voluto” (di fatto la querelle Al Bano-Baudo è successa lo scorso anno, ma lei l’ha vista, non so dove, quest’anno).
  • “Come ballerine non c’era un granché”.
  • “Però è bravo quel giovane alto che cantava” (e vai a capire chi è, ndr).
  • “L’unico cantante che mi è piaciuto, a parte Michele Inzerillo (Zarrillo, per chi non lo sapesse, ndr), è quel siciliano col pianoforte (suppongo che si riferisse al calabrese Sergio Cammariere, ma dato che in palermitano “cammariere” significa “cameriere”, mia suocera avrà pensato che è siculo, ndr).
  • Mancia!

    Mezzogiorno circa. Entro nella bottega del mio barbiere, Giorgio, periferia nord di Palermo. C’è poca gente, due clienti infagottati nei mantelli blu (un blu barbiere, proprio), il cognato e il figlio del titolare all’opera. Lui, Giorgio, mi accoglie con un sorriso rassicurante, quasi fosse un dentista che deve preparare psicologicamente il paziente a un’estrazione. Musica in sottofondo: canzoni italiane da una sgangherata radio locale. Si parla a bassa voce e le parole, specie durante lo shampoo, sono carezze. La forbice gira leggera intorno alla testa e il suo soffio metallico è gradevole. Persino il rasoio infonde una fiducia tagliente.
    Giorgio non chiede, sa già. E non perché io sia un cliente particolarmente affezionato o esigente (il mio requisito pilifero è risibile). No, Giorgio sa tutto di ogni rivestimento cranico che almeno una volta è passato per le sue mani. E’ la sua maniera di fidelizzare, di accogliere, di curare il marketing insomma. Chiunque, nella sua bottega, è accolto come chiunque altro. Con sorrisi misurati, chiacchiere rarefatte, coccole di forbici e musica lieve.
    Al momento di pagare non chiede mai una cifra. Dice semplicemente: “Il solito, signore”. E tu – da signore – lasci sempre la mancia. Lui, declama: “Manciaaa!”. Il cognato e il figlio in coro: “Grazie, signore! Buona giornata”. E’ l’unico momento in cui nella sala da barba di Giorgio si alza la voce.

    Il menestrello

    Era una primavera di sei anni fa, forse aprile inoltrato. Una pizzeria e un tavolo di tutte donne all’aperto, una Catania con le strade non ancora sfregiate.
    Era l’addio al nubilato che la mia amica Giulia aveva voluto organizzare a suo modo: senza glamour ma rigorosamente senza uomini. Tutto fila liscio sino a quando arriva lui, un amico di Giulia. Passa lì per caso, con annessa chitarra. Ha l’aria del bello e maledetto. Si siede ed ordina la sua pizza come se fosse la cosa più naturale del mondo. Poco male, è simpatico e pure colto, che rimanga pure.
    La serata scorre bene sino a quando il tipo, che apprendo essere un aspirante prof d’Italiano ingiustamente trombato allo scritto del concorsone nazionale, concentra la sua attenzione su di me. Due chiacchiere brillanti e poi la domanda, fatidica: che lavoro fai? La giornalista. Ma una giornalista vera? Giulia interviene tessendo le mie lodi professionali. Il menestrello (nei nostri amarcord io e Giulia lo chiamiamo ancora così) sbianca di colpo. E attacca. “Voi giornalisti scrivete ma non siete scrittori”. Io non lo nego, anzi. Ma lui s’infervora ugualmente, provoca, vuole vedere il sangue che scorre e la serata rischia di animarsi troppo. Io guardo Giulia. Proprio non si merita che il suo addio al nubilato venga ricordato per una memorabile litigata. Così vado contro la mia natura e non tiro fuori le unghie. Subisco tutti i possibili luoghi comuni, e non sempre veri, sul mio mestiere.
    Mi è capitato di incontrarlo più volte, il menestrello, e si è sempre girato dall’altro lato.
    In tutti questi anni non ho mai smesso di pensare a quella serata. Oggi che Giulia ha felicemente rodato il suo matrimonio sarei finalmente in grado di dire due o tre cose al suo amico prof. Nell’attesa di incontrarlo di nuovo (e succederà) scrivo qui quello che penso.
    Molti giornalisti si affrettano a rimarcare ai loro allievi che la letteratura è bandita dal mestiere di cronista.
    Il perché è chiaro: il buon cronista descrive il reale, lo osserva, in taluni casi lo svela o addirittura lo spiega, ma non lo inventa. Il bravo scrittore può anche attingere alla realtà che lo circonda, ispirarsi persino a quella già trascorsa o alla realtà che non è mai stata, ma è come un bambino che disegna l’idea, (i tedeschi direbbero Vorstellung), che si é fatto delle cose, non la visione che gli viene rimandata attraverso i suoi stessi occhi. Ma azzardo un altro ragionamento, anche perché mi sono fatta un’idea della creatività come congiunzione di nuovo e di utile.
    Sono molti i racconti o i romanzi in cui si entra all’istante – per la felicità del lettore- nella situazione narrata, anche quando questa è fantastica, futuribile, ignota.
    In questi casi ne ammiriamo la creatività, la potenza evocativa delle immagini che dal foglio passano dritte alla nostra mente, qualche volta alla nostra anima.
    Eppure, anche nelle buone inchieste giornalistiche – sia scritte che filmate- conta ciò che possiamo chiamare “l’ingresso” nella storia. Poi il bravo giornalista accompagna il lettore (o lo spettatore) per mano, rigo dopo rigo, o fotogramma dopo fotogramma, dentro una realtà che pochi o nessuno avevano avuto la voglia o il coraggio di descrivere. Non il coraggio di narrare, ma di svelare nella sua cruda, e a volte devastante oggettività.
    Qual è il filo creativo che annoda i due linguaggi?
    E’ di moda citare Calvino, Lo faccio anch’io. Nelle sue Lezioni americane, quando discorreva di visibilità, Calvino si riferiva al “pensare per immagini” e accomunava le “realtà” così come le “fantasie”, al loro saper prendere forma attraverso la scrittura. Per lo scrittore le visioni polimorfe degli occhi e dell’anima si trovano contenute in righe uniformi di caratteri minuscoli o maiuscoli, di punti, di virgole, di parentesi.
    La visione ha un’importanza fondamentale e primaria e presiede al pensiero visivo. E se il “creare” immagini dal nulla è creatività dello scrittore, il coglierle nella realtà, acchiapparne l’essenza, la complessità in un taccuino o nei pixel di una telecamera digitale, è la missione di un buon cronista.
    Tutti scrittori, dunque? No. Come non tutti sono giornalisti, per quanto ne dicano i guru del citizen journalism. Ma in mezzo ai due mestieri c’è l’uomo, che è l’essere dello sguardo.
    Ecco è questo che vorrei dire al menestrello. Ora mi sento più leggera.

    Ricominciare

    Ricordo tutti gli inizi della mia vita, da buon aspirante anziano. Un primo giorno di scuola di mille anni fa. La prima chitarra con il prezioso manuale di Paul Kent. La prima caduta sugli sci a Piano Battaglia. L’incipit de “I ragazzi della via Pàl”. Il primo bacio in una scontata sera d’estate. La prima sigaretta con Giovanni e Marcello. La prima gita scolastica. La prima domenica di austerity. Il film “2001 Odissea nello spazio”. La prima moto. Un taglio profondo sul braccio sinistro. La prima bocciatura. Il primo programma radiofonico. La morte di due amici. Il primo esame all’università. La volta in cui mio padre capì che non avrebbe avuto un figlio medico. La prima firma sul giornale. La prima volta che ho mangiato il pesce. Le “lezioni americane” di Calvino. La prima casa in affitto. Il primo bootleg dei Van Halen. La prima volta che ho creduto di innamorarmi. Il primo computer. L’ultima volta che ho cambiato residenza. Il primo libro che non ho mai pubblicato.
    Ricordo tutti gli inizi, anche se non hanno tutti lo stesso peso. E ricordo che a ogni giro di boa, nonostante non sia un inguaribile ottimista, ho trovato il modo di farmi una risata.
    Rido.

    E’ finita

    Canzoni così brutte un solo Sanremo non le aveva mai raccolte tutte insieme. Melodie telefonate, strofe ruffiane, gusto insipido per un immaginario palato unico, vuoto pneumatico di idee. Niente pagelline e voti, di quelli abbiamo fatto incetta in mondovisione. Solo una rapida trascrizione degli appunti presi con i miei amici Giacomo e Raffaella, nell’ultima estenuante serata del Festival.

    • I vincitori. Giò di Tonno e Lola Ponce nel loro trionfo di zigomi lucidi e mandibole americane mi ricordano i Jalisse. Solo che Giò e Lola (che sembrano i nomi di un fumetto porno) hanno un passato da musical, mentre i Jalisse avevano un passato che avrebbe fatto pendent col loro futuro, il niente. La musica è pressoché la stessa.
    • Fede e compagni. La giuria di qualità che discute e discetta dei voti appena affibbiati o elargiti mi è sembrato un basso espediente per innescare la scintilla dello scontro in diretta. Quindi per fare ascolti. E poi avete visto chi rappresentava la “qualità”?
    • L’Aura. Mi resteranno impresse le sue scarpe medioevali. Il resto, per fortuna, passa.
    • Mario Venuti. Un marziano in un mondo in cui, ad esempio, Martina Colombari gli preferisce Toto Cutugno.
    • Tiromancino. Premio per il testo più didascalico. Oscar per l’antipatia a Federico Zampaglione: una faccia orfana di schiaffi.
    • Max Gazzè. L’unica goccia di stile.
    • Anna Tatangelo. Una finta bona che fa la finta diva e che recita un finto copione e canta finte canzoni.
    • Carlo Verdone. Il mega super spottone del film in uscita chi lo ha pagato?
    • Piero Chiambretti. Divertente anche se talvolta ossessivo.
    • Elio e le storie tese. Indimenticabili.
    • Pippo Baudo. Faccia il presentatore, ma non più il direttore artistico. Sa tutto della macchina del palco, è desueto per le scelte musicali e strategiche.

    Suocerando

    di Abbattiamo i termosifoni

    Quando l’ho conosciuta, quasi otto anni fa, mia suocera (nella foto) parlava l’italiano. Poi, per un fenomeno inspiegabile, una parola alla volta ha cominciato a comporre un vocabolario tutto suo. E non ha mai più smesso.

    Categoria 1: i vip

    Danilo: Robert Deniro
    Paolo: Paolo Limiti
    Bruno: Bruno Vespa
    Gerry: Richard Gere
    Boldiva: Papa Wojtyla
    Paparazzi: Papa Ratzinger
    Il tenore Vaporotti: Pavarotti
    Frizzel: Fabrizio Frizzi
    Mara Vernel: la Venier
    Magallì: Magalli (senza accento alla francese)
    Mac Buongiorno: Mike Buongiorno
    I Pink Flonk: I Pink Floyd
    I Puffs: i Pooh
    Michele Inzerillo: l’ormai noto cantante Zarrillo

    Categoria 2: Costume, cultura e società

    Porta e porta: la trasmissione di Vespa
    Saremo: Sanremo
    Le avventure di Popolino: il noto fumetto Disney
    Gli uominisessuali: gli omosessuali
    I flosci: i froci
    Il gheo: il gay

    Categoria 3: gli acquisti

    La cintura del dottor Giubbox: Gibot
    Il plent: il plaid
    Il preciutto: quello di Parma
    Il fornellino: il fornetto elettrico
    Il sopramercato: dove si fa la spesa
    Il carello: dentro il quale si mette la spesa
    La melza: la milza, che a Palermo si mangia nel panino
    Lo junder: la ’nduia, noto salume calabro, qui trasformato in tirolese
    Gli iuster: i wurstel, al plurale
    La serpia: la seppia

    Categoria 4: i farmaci e la cura del corpo

    I galli: i calli
    La gallista: la pedicure
    La Saradon: il Saridon
    La Bectas: la Biochetasi
    Il cicciccì: il Vivin C

    Categoria 5: le frasi celebri

    Io ho due Ioccscenk (due cani Yorkshire)
    Mio figlio è identico a un attore (e tira fuori una foto di Che Guevara)
    Mio figlio è identico a quel giornalista… Maurizio! (e indica in tv Maurizio Mannoni. Ma come fa uno che somiglia al Che a somigliare anche a Mannoni?)
    Di questi tempi mangio poco. Soffro di nappetenza
    Che vuoi, io sono così, ho un carattere creativo (risposta al figlio che le rimprovera di essere nervosa)
    Ma com’è che non fa profumo questo deodorante? (e si era appena spruzzata l’Audispray sotto le ascelle)
    Che bravo quel tuo amico, il giornalista… come si chiama? Ah, sì: Gel! (Gery Palazzotto)

    Se mi viene in mente qualcos’altro, minaccio una seconda puntata.

    Elio e le storie ottime


    Ieri Festival di Sanremo in pausa. Per fortuna il Dopofestival di Elio e le storie tese è andato in onda lo stesso. Bella musica, cover efficaci, poca banalità. Insomma uno strano tipo di buona televisione. Ecco un momento cult di qualche sera fa.

    Musica e surgelati

    Volevo scrivere di robe personali, allegoriche, quasi metafisiche… invece mi tocca tornare su Sanremo. Se avete seguito la discussione di ieri sapete il perché.
    Appunti di festival, anche oggi. Eualà.

    • Pastori tedeschi. Dieci cani sul palco dell’Ariston tutti in una volta non si erano mai visti. Senza microfono poi…
    • Scansione degli spot. Qualcuno dovrà pur lamentarsi per queste fastidiose canzoni che interrompono la pubblicità.
    • Amedeo Minghi. L’unico surgelato al mondo che si può scongelare e ricongelare ogni anno.
    • Little Tony. L’unico surgelato al mondo che canta senza bisogno di scongelamento.
    • Jacopo Troiani. Uno che a 17 anni ha girato un film, si esibisce a Sanremo e si muove come la buonanima di Sergio Endrigo può viaggiare comodamente in autobus. Appena lo vedono, tutti gli cedono il posto a sedere.
    • Mietta. Più dell’ugola potè la gengiva.
    • Loredana Bertè. Per fortuna, a dispetto di quanto ha biascicato la barcollante diva vestita da Obi-Wan Kenobi, la musica non è lo sport. Infatti nello sport c’è l’antidoping.
    • Duran Duran. Resta la battuta di Chiambretti: “Ah, i Duran Duran, quelli degli anni Ottanta. Sono sempre loro o nel frattempo qualcuno è morto?”.

    Canzoni stonate

    Trascrivo alcuni rapidi appunti sulla prima serata del festival di Sanremo (vedo poca tv, ma quando lo faccio ho sempre carta e penna con me perché mi piace farmi male sino in fondo).

    • Il culto del passato di cui la manifestazione si nutre ha innescato una specie di Alzheimer catodico: i continui rimandi al bel tempo canzonettistico che fu appesantiscono la struttura del programma causandone una demenza progressiva.
    • Nonostante ciò, l’omaggio a Modugno e al suo “Nel blu dipinto di blu” è stato il momento migliore della serata, se non altro per l’originalità del montaggio.
    • Perché Cutugno e Zarrillo (sono mie fissazioni, lo so) continuano a essere stelle della bandiera italiana che non ha né stelle né striscie? In più, Cutugno ha presentato una canzone dal testo stratosfericamente banale, con palesi difficoltà di sillabazione: un’offesa allegorica alla rima baciata, un tritato di luoghi comuni da mal di testa.
    • Alcune battute di Chiambretti sono state divertenti. Il comico ha comunque il dono della leggerezza e anche quando affonda i finti denti nelle carni frollate dell’apparato ci fa perdonare (ma solo per un attimo) la stucchevolezza di un copione nel quale anche le virgole vanno declamate.
    • Frankie Hi NRG si è meritato il premio “migliore delusione” della serata: da un rapper originale e dissacrante mi aspettavo almeno un’idea. Invece la canzone è orribile e il testo sembra scritto da Fabri Fibra.

    Fine degli appunti.

    Diamoci del tu

    Sospettate pure che io ce l’abbia un poco con i miei conterranei: non mi affaticherò più di tanto per smentirvi, né vi chiederò di perdonarmi. Ce l’ho anche con i nostri connazionali, quindi pari e patta. Oggi mi infervoro così: in Sicilia i vezzi sociali, linguistici e di costume ci arrivano in ritardo. E male. Il postino che fa le consegne dei modi di fare e di dire pubblicizzati in tv e impacchettati a Roma o a Milano, non è mai in orario – questioni di distanza, difficoltà logistiche, ah, il ponte di Messina, Silvio! – e a volte può metterci mesi e anni prima di sbalordirci con articoli dei quali spesso sarebbe meglio fare a meno. Così la consegna ci coglie impreparati. Diffidenti. Poi desiderosi di spacchettare l’involucro, appropriarci del contenuto e usarlo di più e meglio dei nostri predecessori che ce l’hanno inviato. Riscaldiamo la derrata scaduta, ne facciamo scorpacciata, la storpiamo con ricette di fantasia. Esageriamo. È nelle nostre corde, d’altronde. Prendete il boom dell’uso della cocaina, la droga dei manager. I primi rampantini palermitani con la narice arrossata e il piatto di Sushi per inappetenti si sono visti quando ormai le acque del Po e del Naviglio erano infestate da urine tossiche di caratura doc, ventennali. Bisognava recuperare. Farci valere. Peccato non avere nell’Oreto acqua sufficiente a riempire una provetta. Suppongo che il nostro fiumiciattolo, oggi, riserverebbe sorprese da far impallidire un Veronesi. Passando a fatti più frivoli: più di venti anni fa mi regalai un viaggio a Roma, ad agosto, da solo. Ero un ragazzino, rimasi estasiato dai ponti, dalle fontane dell’acqua Marcia, dai riflessi del pulpito dorato in San Pietro, dalle atmosfere Argentiane dei sotterranei della metro e delle geometrie cespugliate di Casalpalocco. Ma una cosa più di ogni altra mi sconvolse. A Roma si davano del “tu”. Tutti. Vecchi e giovani. Per strada, nei negozi, con tono rilassato, quasi giocoso. Eccitato e un po’ scandalizzato, lessi la mia scoperta come una dimostrazione di disinvoltura capitolina. Era per me una specie di rivoluzione linguistica, eredità di un sessantotto che da noi era solo passato senza salutare; un provvido colpo di piumino alle convenzioni stantie che in Sicilia, invece, resistevano. Avevo meno di vent’anni, appunto. Pregai che il fenomeno contagiasse anche Palermo. Tu. Senti. Prendi. Tieni. Dammi. È successo ora, che di anni ne ho quaranta. Mi prendo ogni giorno un “tu” dalla cassiera diciottenne del supermercato. E confesso che mi dà fastidio. È più forte di me: il “tu per tutti” palermitano non mi suona disinvolto. Ha un che di forzato e, invariabilmente, aggressivo. Di rado è accompagnato da un sorriso. Più spesso ha il rumore di un inceppo linguistico, di una convenzione con la quale non si è ancora scesi a patti. Ti arriva quasi sottovoce, oppure smozzicato a sguardo basso, come se chi lo pronuncia stesse compiendo un furto o un atto di rivalsa pretestuoso. Fateci caso, sappiatemi dire. Il “tu” senza amicizia, in fondo, torna a essere quello che è: un’appropriazione indebita di intimità, una rivendicazione infantile di superiorità. Sarà la solita esagerazione palermitana. Sarà che sono invecchiato. O sarà che devo cambiare supermercato, commessa e organizzarmi un altro viaggio a Roma. Dove magari, nel frattempo, è tornato di moda il “lei”.