In caso di felicità

Finisterre.

(Mentre scrivo ascolto questa canzone, è giusto che lo sappiate. Se volete mettervi in pari con me, ascoltatela anche voi. Alla fine vi spiego…)

Sono in quella che un tempo molto lontano veniva indicata come la fine del mondo conosciuto. Il posto in cui all’arrivo, i pellegrini devastati da un cammino senza scarpe in gore-tex e materiali in microfibra ma con sandali da set sadomaso e abbigliamento fermentato, venivano ingannati col rogo dei vestiti e il conseguente bagno purificatore nell’oceano. Ci sono voluti secoli di emancipazione dal vincolo di cecità religiosa per ridisegnare il contesto di questo quadretto biblico. A Finisterre arrivavano torme di esseri umani che puzzavano come cadaveri nell’armadio di Andreotti, e la prima esigenza di salute pubblica era disinnescare la bomba biologica che questi poveracci tenevano inconsapevolmente sotto le ascelle. Quindi: bagno nell’oceano freddo (che il freddo, come dicono i nonni, disinfetta), e fuoco contro il male della Puzza Assoluta.

Io, pur essendo un fedele seguace del dio sapone, un bagno oggi me lo volevo fare. Ma, tastata l’acqua che ha una temperatura inconcepibile per un siciliano in agosto, ho scelto di posticipare le mie abluzioni di qualche giorno, in terra natia. Però ho celebrato con adeguata solennità il rito che mi ero promesso l’inverno scorso quando mi era stato inoculato il virus del Cammino del Nord. Mi ero detto: non so se ce la farò, ma se riuscirò io dovrò brindare a me stesso (non lo faccio mai, brindo sempre a qualcosa di relativamente collettivo, per inusitata scaramanzia) nel tramonto di Finisterre.

Ce l’ho fatta, l’ho fatto.

Mentre bevevo la mia 1906, una birra da 6,5 gradi, aromatica quanto basta per non essere una birra qualunque, ascoltavo la canzone che spero starete ascoltando.
E scrivevo appunti sul mio block-notes sgualcito, macchiato di fango e sudore e altre sostanze sulle quali manco una perizia di CSI potrebbe dire la parola definitiva.

Le cose che mi resteranno sono cose semplici e disarmanti, come la goccia sulla pietra, la goccia che abbiamo sottovalutato.

Mi resterà l’immagine dei miei piedi bianchi che stride con le mie gambe arrostite dal sole. Perché la nostra parte nascosta prima o poi emerge sempre, e quando lo fa non si nota altro.

Mi resteranno i comportamenti diametralmente opposti di due albergatori: uno a Llanes che ha tentato di fregarsi i soldi della mia prenotazione e si è rivenduto il posto a qualcun altro (qui il link per evitarlo come la peste); l’altro a Boimorto, una signora premurosa e quasi materna che vedendomi stanco ha preso la sua macchina, mi ha offerto il passaggio per il ristorante più vicino e mi ha intimato “chiama quando finisci, ti vengo a prendere, che sennò mi dormi sul marciapiede” (qui il link di riconoscenza perenne).

Mi resterà la sana abitudine di riposarmi prima di sentirmi stanco. Perché la lucidità la perdi molto prima di quanto pensi: e metteteci tutte le metafore che volete.

Mi resterà il volto di quelli con cui ho condiviso un pezzo di cammino (qualcuno), una chiacchierata (pochi), una sbevazzata o una cena (pochissimi). La stragrande maggioranza non li vedrò più ed è affascinante quanto ci si possa (ri)scoprire con sconosciuti che, in quel momento, condividono con te la cosa più importante: un’esperienza complicata.

Mi resterà la rinnovata convinzione che sacrificare tutto alla gestione di un potere che ti dà luce solo nel palazzo in cui si dipana, che ti fa sentire re in un mondo di nani – e tu ne godi dimenticando che i nani sanno di esserlo mentre tu non sai di essere un gigante farlocco – è una becera banalità: soprattutto se non ti sei mai dato un appuntamento con te stesso, un dato giorno di un dato anno in un dato posto, per affondare i piedi nella sabbia di un tramonto che è tuo e solo tuo. E ve lo dice uno che ha fatto scelte lavorative che potevano sembrare più scriteriate che eroiche. Evidentemente il destino, lui che può, ogni tanto si fa una canna.

Mi resteranno i nomi con cui si annotano sul cellulare i nomi dei compagni occasionali: Matteo Cammino, Francesca Tallone, Christine Mappa…  In fondo è divertente pensare di essere, con leggerezza, ciò di cui abbiamo bisogno nei momenti cruciali: un consiglio, una crema, un’ambizione.

Mi resterà il dubbio di chi cazzo ha posizionato le conchas del Camino in Galicia, le immagini della conchiglia che guida i pellegrini: univoca dappertutto, tranne che in Galicia appunto, con le venature che una volta danno la direzione da prendere e un’altra quella opposta.

Mi resteranno soprattutto i messaggi, qui e altrove, di moltissime persone che in modo pubblico e privato mi hanno spiegato perché questo Cammino è stato anche il loro. E il merito ovviamente non è del sottoscritto, ma di una meravigliosa sensibilità liquida che ci dice che siamo migliori di come noi stessi ci dipingiamo. Non è il miracolo dei social, anche se in quel contenitore questo sortilegio si è amplificato, ma della umana circolazione delle idee. Uno racconta una storia, un altro la legge, gli piace, la storia diventa sua. È la più semplice delle interazioni, quella a prova di ciber-cretino. Ho conservato tutti i messaggi che mi sono arrivati e ritengo che siano il vero patrimonio di questa esperienza, comunque vada la mia vita. Me li rileggerò nei momenti tristi come nei momenti felici.  Anzi soprattutto in quest’ultimi. Sono uno strano tipo di nostalgico barra romantico barra rincoglionito: quando sono giù non mi faccio mai fregare dai ricordi luminosi, sarebbe uno spreco. Io più sono contento e più penso a quando sono stato contento. E adesso ho pensato, per esempio, al Natale. Quando sono contento penso sempre al Natale, è una specie di tic.
Ecco il perché di questa canzone.
Scusate il post un po’ lungo e scusate se per finire vi ricordo qualcosa che sapete già. Ma serve.
Non è mai troppo tardi per mollare tutto e diventare felici.

P.S.
La foto sopra l’ho scattata un anno fa a Copenaghen, mentre passeggiavo pigramente. C’era una pedana, c’era una radio a tutto volume, e c’erano questi ragazzi che ballavano al tramonto. È l’immagine migliore per un titolo tipo: in caso di felicità.   

(29 – fine)

Le precedenti puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

3 commenti su “In caso di felicità”

  1. Arrivare a Finis-terre: un viaggio scritto dai piedi di un altro in cui, con tratto via via alleggerito, dal leggere di altri ti ritrovi a leggere dell’oltre.

  2. Non è mai troppo tardi per mollare tutto e diventare felici.
    Me lo scrivo e me lo riscrivo.

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