Giornalisti, distruzioni per l’uso

Quando lavoravo al Giornale di Sicilia avevo un fattorino fidato. Ogni volta che licenziavo una pagina, gli affidavo la fotocopia da mandare in tipografia con la raccomandazione di dare prima un’occhiata. Questo perché la sua sensibilità – non era colto ma sveglio e senza la paura di dire “non capisco” – mi metteva al riparo da svarioni più di quanto avvenisse con molti miei colleghi giornalisti. E non per colpa loro, di alcuni di loro, ma proprio perché ritenevo che un prodotto orizzontale come un giornale dovesse essere chiaro e inequivoco. E quale migliore cavia del mio fattorino fidato? Lui non esprimeva giudizi, non entrava nel merito, non si attribuiva ruoli che non aveva. Col candore che le menti semplici riescono ad avere quando non sono incatramate da substrati di pigrizia e indolenza, chiedeva quando non capiva: “Gery, chi bienne a dire ‘sta cosa?” (Gery che significa questo?). Immediatamente io cambiavo e correggevo. Sempre. Bastava che lui avesse un’esitazione o una perplessità e io avevo la certezza che anche il titolo o l’articolo che mi parevano più belli dovevano essere ritoccati.

A questo pensavo mentre leggevo le polemiche sull’articolo di Massimo Gramellini a proposito di Silvia Romano, la cooperante rapita in Kenya descritta dal suddetto come in preda a “smanie d’altruismo”. E su questo mi incarognivo mentre leggevo la replica spocchiosa del giorno dopo, sempre del suddetto. Perché Gramellini in un paio di articoli ha riassunto due dei vizi peggiori del giornalista. Primo: non capire che se una provocazione non è chiara a tutti i lettori vuol dire che non funziona e se non funziona ci sta poco a diventare una cazzata fotonica. Secondo: prendersela coi lettori che non afferrano e buttarla in psico-caciara col solito ritornello su social, web e “il pericolo che ci riguarda tutti” mentre in questo caso, almeno in questo, riguarda solo lui e la sua incauta presunzione da onanista di maître à penser.
Ecco nelle scuole di giornalismo questo esempio andrebbe citato per spiegare come non si fa. Soprattutto in un’era in cui la chiarezza e l’inattaccabilità del pensiero semplice sono un antidoto contro hater e nuovi barbari.

P.S.
Quando me ne andai dal giornale, una mattina di febbraio di dieci anni fa, c’era una sola persona nella stanza con me a riempire scatole e sacchetti, senza perdersi in inutili cerimonie degli addii ma senza nemmeno vergognarsi degli occhi lucidi. Lui e nessun altro.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

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