Il grande guardone

L’articolo pubblicato sul Foglio lo scorso fine settimana.

Secondo una battuta che circola negli Stati Uniti, ormai per farsi finanziare un qualsiasi progetto dal governo basta aggiungere la parola cyber al titolo del progetto stesso. Il motivo è semplice: quando si parla di rischi legati alla tecnologia, e più in generale di criminalità informatica, pochi conoscono esattamente qual è l’effettivo “campo di gioco” con le sue regole e i suoi trucchi.
La gran parte delle agenzie di intelligence soffiano sul fuoco del pericolo imminente probabilmente perché devono in qualche modo attestare la propria esistenza in vita (con relativi costi). Inoltre è sempre forte l’eco di quella che il ricercatore di Harvard Ben Buchanan chiama la “leggenda della sofisticazione”: ogni attacco viene descritto sui giornali come estremamente sofisticato, quando spesso non lo è affatto e si è propagato solo per l’inefficienza delle infrastrutture informatiche.
Insomma, il vero problema in tempi così drammaticamente moderni è la diffusione dell’analfabetismo digitale. Da un’inchiesta del New Yorker emerge un dato su tutti: fino a qualche anno fa gran parte dei giudici della Corte Suprema degli Usa, il massimo organo giudiziario del Paese chiamato a dirimere anche questioni di tecnologia, non aveva mai usato la posta elettronica.


È in questo scenario che va inserito, per meglio comprenderlo, il caso Cambridge Analytica, la società che ha raccolto grazie a Facebook i dati personali di oltre 50 milioni di utenti del social media, violandone la policy e influenzando le presidenziali americane, il referendum sulla Brexit e chissà quante altre consultazioni popolari. La tempesta ha fatto sobbalzare le istituzioni di mezzo mondo e ha pesantemente penalizzato in borsa il titolo della creatura di Mark Zuckerberg. Ma, soffi di cronaca a parte, ciò che lascia perplessi è lo stupore dei media e soprattutto dei governi che, da un decennio, abboccano alla “leggenda della sofisticazione” senza dare un segno che non sia di esilarante (e tragica) impotenza.
Innanzitutto i termini. Non è stato rubato nulla, né è stato spiato nessuno. Il vocabolo corretto è profilazione: certo, è freddino, ma è quello che paga meno dazio all’approssimazione. In pratica attraverso Facebook, una app che propone il giochino dell’identikit digitale – della serie dimmi di cosa hai paura o cosa ami e ti dirò chi sei, roba da bimbiminkia cresciutelli – avrebbe consentito a Cambridge Analytica di accedere alle informazioni degli utenti e, con un meccanismo a cascata, dei loro amici. Questi dati sono un vero tesoro in tempi di micro-targeting, cioè quella tecnica che sta a metà strada tra il marketing digitale e le nebbie della persuasione occulta. Se io so cosa ti piace, cosa detesti, cosa ti accomuna a un gruppo di persone, quanto pesa il tuo giudizio su di loro, quanto sei sensibile a certi temi e via cliccando, sono in grado di fornirti contenuti ad hoc dandoti la sensazione che sia tu a sceglierli. Mentre è vero esattamente il contrario.
Ma, udite udite, questa non è un’invenzione di Cambridge Analytica, né una nuova emergenza planetaria. È semplicemente lo schema base con cui l’algoritmo di Facebook decide istantaneamente il destino di tutti i post di ognuno dei due miliardi di utenti collegati.
Vale la pena di fare un ripasso, almeno per capire l’effetto che fa.
Il fatidico algoritmo fa una panoramica di tutto quello che bolle in pentola, verifica chi ha postato cosa, fa una predizione in base alla storia dei post precedenti (quanti commenti o meglio quante interazioni) e attribuisce a quel singolo post un punteggio. Questo punteggio è in pratica la sua previsione sull’indice di gradimento di quel contenuto. E ciò accade per ogni post di ogni utente di ogni parte del mondo in ogni momento della giornata.
Regola sempiterna: tu leggerai esattamente quel che Facebook vuole che tu legga.
Non è un segreto, non lo è mai stato.
L’impegno della creatura di Zuckerberg di voler mettere in contatto le persone è in realtà il sipario damascato dietro il quale si cela la trama della più grande azienda di sorveglianza della storia dell’umanità.
La sottovalutazione del fenomeno da parte delle grandi istituzioni democratiche del pianeta ha dell’imperdonabile. Stiamo parlando di un’azienda che ha avuto una velocità di diffusione senza paragoni rispetto ad altre imprese che sfruttano la tecnologia (da internet alla televisione, dalla radio alla telefonia mobile). Un’azienda che nonostante la crescita ipertrofica registra un incremento inarrestabile della dipendenza dei suoi utenti: quando nel 2012 Facebook ha superato il miliardo di iscritti, il 55 per cento degli utenti lo usava ogni giorno; oggi che gli iscritti sono più del doppio la percentuale è salita al 66 per cento. E questo nonostante la sua politica sia incentrata su tutto fuorché sulla qualità dei contenuti. Bugie e propaganda sono le benvenute, di contro l’immagine di una donna che allatta al seno fa scattare subito la censura con un combinato di blocco ed eliminazione che dà un’idea del suo grottesco sistema di priorità.
Quindi siamo partiti dal recente caso di Cambridge Analytica e ci siamo ritrovati nella narrazione di un passato in cui gli indizi dello scandalo c’erano tutti. Oggi l’Europarlamento e la Gran Bretagna strillano chiedendo spiegazioni, ma già tre anni fa bastava guardare su YouTube un video di Kurzgesagt, un interessante progetto tedesco, che spiegava come oltre settecento dei mille video più visti su Facebook nel 2015 fossero rubati alle persone che li avevano creati. Oppure sarebbe stato necessario prestare più attenzione alle dichiarazioni dello stesso Zuckerberg che sul suo account dichiarava che “oltre il 99 per cento dei contenuti è vero e solo una piccola parte sono notizie false”. Peccato che moltissimi utenti, tra cui Evan Williams (cofondatore di Twitter e fondatore del sito di informazione Medium), hanno letto il cruciale post di Zuckerberg slalomando tra due fake news, una delle quali annunciava la rimozione di Trump a opera del Congresso, secondo una fonte della Cnn vera come una banconota da centomila euro.
Oggi ci indigniamo per la profilazione selvaggia grazie al giochino scemo dell’identikit digitale, ma il peso totale di Facebook – e non di una singola app – su una competizione elettorale era già stato misurato nel 2012, quando Nature dimostrò che il social network era riuscito a portare alle urne 340 mila elettori in più negli Usa grazie a una sorta di esperimento sociale svolto nel 2010 in occasione delle mid-term elections (le elezioni per il Congresso che si svolgono due anni dopo le presidenziali, considerate un test importante sulla popolarità del presidente). Tutto ciò grazie a un combinato di messaggi selezionati sulle bacheche di utenti ben profilati e di annunci di incoraggiamento con le foto degli amici che dichiaravano di essere andati alle urne. Prove tecniche, riuscite, di persuasione occulta a mezzo social.
Facebook è un colosso interamente basato sulla gestione delle informazioni degli utenti. Qualche anno fa, intuendo le potenzialità di una monetizzazione senza precedenti dei dati personali, l’azienda decise addirittura di incrementarli. E per fare ciò si rivolse a società come la Experian che monitorano gli acquisti in collaborazione con i colossi delle carte di credito e i rivenditori al dettaglio: ciclopi e nani, virtuale e metropolitano in un cocktail che fotografava il cuore economico del mondo reale. Era la quadratura del cerchio perché in questo modo Zuckerberg faceva luce sull’ultima parte delle nostre vite di consumatori a lui oscura: quella che si svolgeva fuori da Facebook. Tanto per capire di cosa stiamo parlando, la sola Experian ha dichiarato che i suoi dati sono basati su 850 milioni di acquisti effettuati da quasi 50 milioni di britannici che vivono in poco più di 25 milioni di case sparse in 1,7 milioni di aree postali.
Insomma Facebook conosce il codice utente del mio smartphone, una lunga serie alfanumerica che non ha doppioni e che non prevede omonimie, ergo il mio vero marchio digitale (altro che nome e cognome), sa come mi comporto nella mia e nelle altrui timeline, sa anche quello che faccio quando scorrazzo nel web e soprattutto conosce i miei acquisti offline, quando vado al ristorante o compro un paio di calzini, grazie alla carta di credito.
Non è un segreto, non lo è mai stato.
A questo punto chiediamoci: l’emergenza è sempre Cambridge Analytica? Probabilmente sì poiché le rivoluzioni hanno la carburazione lenta e necessitano di una miccia. Ma non illudiamoci di aver azzeccato la risposta.
Oggi scopriamo che nelle campagne elettorali, questa società ha sempre giocato coi populisti: dalla Brexit a Trump a Marine Le Pen. Di certo sappiamo che, come Facebook, ha contribuito enormemente ad abbassare il livello e la qualità del dibattito pubblico poiché la dottrina dominante di quest’era che celebra l’istantaneità come se fosse un’ulteriore lezione americana di Calvino, impone i risultati che guardano all’oggi e non al futuro: e oggi siamo nella dittatura che condanna a morte i fatti.
Spiega il filosofo tedesco Gunnar Hindrichs nel suo ultimo saggio, Philosophie der Revolution: “La sociologia americana ha coniato l’espressione ‘Lunatic fringe’, una follia che parte dai margini del sapere e si espande verso il senso comune. Oggi queste zone oscure sono entrate con Donald Trump nel cuore della Casa Bianca e nel centro della società digitale e dell’informazione, cambiando il senso dell’opinione pubblica. L’estremismo oscurantista di fake news e congiure varie, travestendosi da ‘fatti alternativi’, stravolge il pubblico discorso. E di questo trend sono gli estremisti della politica, i populisti, ad approfittarne”.
I linguaggi sono quelli del web pilotato: da un lato il trionfo, drogato, della banalità; dall’altro il terrore inspiegato. Ma la genialità è tutta di Zuckerberg che riesce ad addomesticare persino una bestia feroce come la verità. Leggete cosa ha scritto un paio di mesi fa: “La questione più difficile su cui abbiamo dibattuto è come decidere quali sono le fonti di notizie ampiamente ritenute affidabili in un mondo così diviso. Avremmo potuto provare a prendere questa decisione da soli, ma non è qualcosa con cui ci sentivamo a nostro agio. Oppure potevamo chiedere a voi – la community – e usare il vostro feedback per valutare le pagine. Abbiamo deciso che quest’ultima opzione è il metodo più obiettivo”.
Chiaro? A decidere sull’attendibilità delle fonti di notizie saranno gli utenti, cioè la massa per lui più manovrabile in un mondo che è figlio di quell’algoritmo che favorisce la creazione di “bolle” – o echo chambers – in cui i singoli vedono soprattutto contenuti con cui sono d’accordo o in cui si riconoscono. Lui prima li condiziona, poi gli dà l’illusione di decidere.
Non è un segreto, non lo è mai stato.
Con questi chiari di luna non è giusto derubricare il caso Cambridge Analytica a ordinario scandalo ampiamente previsto, anche se la tentazione è forte, ma è imbarazzante constatare come sullo stesso scaffale del marketing digitale siano stati posti il voluminoso Donald Trump e l’adesivo per dentiere, la Brexit e il sapone intimo. La disinvoltura con la quale Facebook tratta i nostri dati induce a una domanda: è meno peggio che le informazioni che riguardano la mia vita online (e addirittura offline) finiscano nelle grinfie di un’industria di pannoloni o in quelle di un partito politico?
La risposta non è scontata giacché il vero tema non è chi vende cosa, ma chi condiziona chi. In tutta la vicenda Facebook/Cambridge Analytica c’è un solo capitolo che ci riconcilia con antiche questioni, quasi che il suo attagliarsi a vicende d’altri tempi lo ammanti di un’indecente nostalgia. Nella voluminosa inchiesta di Channel 4, l’incauto capo di Cambridge Analytica, Alexander Nix, si vanta di essere in grado di incastrare un imprecisato numero di politici accusandoli di corruzione e di rapporti sessuali con prostitute. Nei filmati rubati, la minaccia perde la sua vaporosità digitale e graffia il muro delle antiche nefandezze analogiche: “Si manda qualche ragazza in casa di un candidato… abbiamo un sacco di casi di questo tipo”, dice al giornalista che si finge intermediario per conto di un riccastro intenzionato a far eleggere alcuni deputati dello Sri Lanka. “Per esempio potremmo portare con noi qualche giovane ucraina in vacanza… sai a cosa mi riferisco”.
Ricatti o marketing estremo che sia, spionaggio o profilazione che risulti, la consolazione è magra, anzi magrissima: in qualche modo toccare il fondo deve essere un sollievo quando si continua a precipitare.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *