Buon compleanno

Undici anni fa “Progetto Legalità”, la fondazione costituita in memoria di Paolo Borsellino, mi chiese un racconto: me ne ero quasi dimenticato sino a oggi, quando cercando una cosa nel mio computer mi sono imbattuto in questo file. Che evidentemente si era scocciato di sonnecchiare tra appunti, fatture, articoli, aborti di idee, e voleva essere tirato fuori. Il racconto si intitola “Buon compleanno”.

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                                              Palermo, 30 settembre 2005

Buon compleanno, Paolino.
Sette anni sono un traguardo importante. E tu, figlio mio, sei destinato a grandi cose. Si capisce dagli occhi, dall’avidità di conoscere, dal sorriso, persino dai capricci.
Ormai leggi benissimo e questa lettera voglio che la conservi.
La Playstation nuova sarà già vecchia il prossimo anno, i tuoi vestiti durano una stagione, come lo zaino per la scuola e certi amici. Invece ci sono cose che non passano, per questo ti chiedo di ascoltarmi: metti questo foglio in un cassetto – magari il terzo del tuo comodino, sotto quello delle mutande, dove solitamente getti la carta delle merendine che hai mangiato di nascosto – e lascialo lì. Stanotte ho fatto un sogno che ti devo raccontare.
Ho in mano un telecomando, come quello della nostra televisione grande, quello con la gomma intorno e con una dozzina di opzioni che nessuno conosce. Questo aggeggio ha un tasto speciale che lo rende unico al mondo, anzi in tutto l’universo. È in grado di fermare il tempo!
Io premo questo tasto.
Clic.

Ci sei tu col soffio sospeso sulle candeline della torta, la mamma in un raro sorriso, nonna Ada col piatto vuoto e nonno Gino col bicchiere pieno. Vi lascio fermi ed esco.
Vado a casa di Melo, il mio amico, lo conosci… quello con cui passo molte serate. Abita al pianterreno e di solito lascia le finestre aperte per cercare di liberare l’appartamento dal fumo. Scavalco l’inferriata che circonda un fazzoletto di giardino ed entro direttamente nel salone. Melo è sul divano con gli occhi persi in un’asta televisiva. Saluto per educazione, anche se lui non può accorgersi di me. Il tavolo verde è ricoperto di carte, fiches e portacenere sporchi. Sono tentato di agire a mani nude, ma preferisco fare le cose per bene. Se non ricordo male, nel ripostiglio dovrebbe esserci una zappa con la quale Melo fa finta di curare le sue misere aiuole.
Infatti è così.
Torno armato nel salone e mi affido ai muscoli.
Le schegge del tavolo schizzano sui muri, una mi colpisce al volto. Carte e fiches colorano l’esplosione di legno, viti, stoffa e sudore. Non dura troppo, il tempo di poter pestare tutto sotto i piedi e assicurare un degno sfogo all’eccesso di adrenalina.
Poi sono di nuovo in strada.
Mi muovo a piedi e ho la strana sensazione di essere velocissimo. In via Libertà, davanti al semaforo rosso, una coda di auto aspetta di diluirsi. Penso al mio telecomando e sorrido all’idea che per il verde, qui come altrove, dovranno tutti aspettare me. C’è pure un tamponamento tra un’utilitaria e un autocarro che non potrebbe circolare in questa zona. Un tizio, che dovrebbe essere il camionista, ha un braccio minacciosamente alzato. Una donna dalla faccia di sottiletta scaduta gli sta davanti, quasi sotto. Ci vorrebbe un poliziotto o almeno un vigile urbano, chissà.
Il negozio che cerco è in una piccola traversa, a pochi metri dall’incidente. È una salumeria ben frequentata: merce cara, prodotti al limite dell’introvabile (e del commestibile, per i miei gusti), proprietario gentile e disponibile. Si, apparentemente Pietro – così si chiama – è gentile e disponibile.
Mi avvicino, superando le statue dei clienti. Pietro è seduto dietro la cassa, con un raro scontrino tra le mani. Vorrei alzarlo di peso quell’uomo, sbatterlo fuori dal suo covo di prosciutti e finirlo a colpi di provola. Invece mi limito ad aprire il piccolo cassetto accanto al suo ginocchio sinistro e a prelevare il quaderno che racchiude un’ignobile contabilità.
Nomi e cifre, cifre e nomi. C’è anche il mio: ventimila euro.
Sorrido anche se ci sarebbe da piangere. La mia missione continua.
Cerco il mare. Ovviamente so dove trovarlo, ma prima devo fare una deviazione.
Il commissariato di polizia è in una palazzina nascosta tra gli alberi. Avranno una cassetta delle lettere, mi dico mentre aggiro un agente di guardia che ha l’accendino in mano per una sigaretta furtiva. Se ce l’hanno è ben nascosta. E se è ben nascosta che la tengono a fare? Non dovrei aver fretta, in questo sogno ho tutto il tempo che voglio. Eppure non vedo l’ora di sbrigarmi perché voglio tornare alla tua festa, Paolino, con le candeline che aspettano di essere spente e tutto il resto.
Il quaderno di Pietro deve essere consegnato alle forze dell’ordine e, non sapendo dove lasciarlo, lo poso sul marciapiede, proprio davanti al poliziotto che vorrebbe fumare di nascosto. Insomma, confido che dai piedi finisca nelle mani giuste.
Il mare. Non mi interessa un lido, una spiaggia, anche se fa caldo e un bagno ci vorrebbe proprio. Arrivo al Foro Italico che sono stremato. Davanti a me la distesa d’acqua del porto.
Il sudore scorre e – cosa curiosa, ma non dimenticare che siamo in un sogno – si incanala tutto nell’ascella destra, scende lungo il braccio e gocciola nella tasca della giacca, perché è lì che la mia mano lo porta. E bagna la pistola.
Poi è una successione di immagini, come una proiezione di diapositive.
L’acqua piatta.
L’arma che impugno.
I contorni regolari della costa di cemento.
Il braccio alzato per scagliare qualcosa, lontano.
Un dolore improvviso.
La mia mano vuota.
Il mare che inghiotte la pistola.
La spalla bloccata per un muscolo, un tendine o chissà quale altra roba scassata.
Ma è un dolore che passa, mi dico, perché ora vengo a casa, schiaccio il tasto giusto nel telecomando e tutto ricomincia, stavolta nella direzione giusta. Del resto, non c’è più nulla di ciò che mi aveva rovinato: la bisca di Melo, i soldi sporchi di Pietro e del suo clan di usurai, e soprattutto la pistola con la quale mi ero vendicato; Melo e Pietro sono ancora vivi, tu stai spegnendo le tue candeline, io ti metto una mano sulla spalla e… clic.
Il telecomando riavvia la vita, tutto riparte: parole, movimento, odori, risate, inganni, sete, traffico, impegni, gioco, rimpianto, sonno, gioia, promesse. Tutto riparte, Paolino.
Il sogno finisce così, ma io non sono con te.

 

Mi sono alzato dalla branda, non era ancora giorno. Avrei voluto accendere la luce e scriverti subito, figlio mio, ma non potevo disturbare i miei compagni di cella.
Ho aspettato che sorgesse il sole e ti ho coccolato nei miei pensieri come nessuna lacrima potrà mai testimoniare, oggi più di ieri perché è il tuo compleanno e perché ho scoperto che non ho nessun telecomando speciale.
Stai vicino alla mamma e non dirle nulla di questo sogno. Sarà un nostro segreto. Ne parliamo quando sarai grande, Paolino mio.
Buon compleanno, ti voglio bene.

                                                                                                         papà

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

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