Eravamo quattro amici al Gds

Uno dei pregi dell’età che avanza è che la memoria comincia a somministrarti ogni giorno, a tradimento, qualche storia passata che, per similitudine o contrappasso, ha un aggancio col presente. Ed è sempre un misto di nostalgia e di orgoglio, nostalgia per quel che è stato, orgoglio per quel che sei stato. Comunque una sensazione piacevole, costruttiva perché ti spinge a guardare avanti con rinnovato vigore.
Ieri, ad esempio, parlando con un caro collega mi è venuta in mente non una storia precisa, ma una concatenazione di flash che sono il film di un lungo momento umano e professionale.
Siamo intorno alla metà degli anni Novanta, al Giornale di Sicilia di Palermo. Siamo in quattro – io, Francesco Foresta, Armando Vaccarella e Giovanni Rizzuto – e siamo (diventati) il motore del giornale. Siamo molto diversi tra noi, viviamo assieme fisicamente una decina di ore al giorno, a volte di più. Io sono quello più rissoso, Giovanni è il più trasversale (infatti è con lui che mi scontro sempre), Armando è il più spassoso e il sommo maestro di affettuoso cinismo, Francesco è la mente politica del gruppo poiché, strategicamente, è già dove gli altri devono ancora arrivare. I flash che mi vengono in mente riproducono quattro situazioni diverse e distanti che – se volete – potete leggere come un unico film.

Sono le 19,55 di una qualunque giornata e uno dei miei telefoni squilla. È Rizzuto che mi chiama, come ogni sera da anni, con la stessa frase. Giovanni è uno dei pochissimi amici che mi chiama col mio vero nome: “Gerlando, arricampati”. È il rito dei Tg, il momento cruciale della giornata per tirare le somme e cercare di porre rimedio a possibili errori di valutazione (per lo più non nostri, va detto). Mentre sguainiamo le sigarette, arrivano Armando e Francesco. La serata va come deve andare: con Giovanni e Francesco che discutono seriamente, Armando che inanella battute irresistibili e ci dà appuntamento per cena, io che mi siedo al posto di Rizzuto per partorire il titolo di apertura del giornale. Ancora oggi, a oltre vent’anni di distanza, ogni volta che vedo il Tg delle 20 per istinto prendo appunti. E così sarà sin quando ci sarà un Tg delle 20.

Sono le 23 di una giornata non qualunque, è il 10 novembre 1995. Siamo al “Ristorantino” per celebrare la nascita del nostro dream team. Siamo in un’epoca in cui nelle aziende esistono ancora le promozioni. Come sempre è Armando a tenere banco. Mangiamo e beviamo secondo indole: nel senso che un acuto osservatore, dall’esterno, potrebbe ricostruire il nostro profilo psicologico guardando e non facendo altro. Giovanni spulcia il menù e giudica, giudica molto, troppo. Io vado direttamente alla lista dei vini. Armando chiede pasta per primo, pasta per secondo e si riserva la scelta per l’ultima portata. Francesco sghignazza perché qualunque cosa dica o faccia Armando, lui si scassa dalle risate (e ancora non abbiamo neanche brindato). La cena finisce in una promessa solenne come la segretezza che la manterrà inviolata sino a oggi. Perché nel bene, e soprattutto nel male, tutto è andato come doveva andare: cioè nel più imprevedibile dei modi.

Sono le 18,15 del 5 luglio 2011, ho appena inviato una mail a Rizzuto. Sono a Ustica, nella tiepida felicità di una vacanza spensierata, e con colpevole ritardo ho saputo che Giovanni ha un cancro in stato avanzato. Gli scrivo dell’affetto che provo per lui nonostante sia stato lui una concausa del mio abbandono del giornale, nonostante sia stata anche sua l’accetta con la quale veniva troncata la cima di un ormeggio che ritenevo sicuro. Gli scrivo che ho imparato a navigare in mare aperto, preferibilmente controvento, con la tempesta, e un solo uomo di equipaggio: me stesso. Ma questo è un orpello. Gli scrivo che l’ho odiato perché mi ha lasciato andar via senza salutarmi e perché ha cancellato in pochi attimi vent’anni di notti insonni, di Marlboro morbide, di accapigliamenti sulla virgola di una notizia, di errori divertentissimi e di certezze noiosissime, di complicità e di tradimenti. Gli scrivo che ci rivedremo, berremo alla sua traballante salute e che pagherà lui. Gli scrivo che gli scriverò ancora. E non è vero. Giovanni se ne andrà qualche mese dopo e io non sarò al suo funerale perché sono stupido e rissoso – il più rissoso – perché non ho ancora imparato che la morte non è la livella, ma il livello. Il livello più alto dal quale un tuo ex amico si può sporgere e costringerti a perdonarlo, a rimpiangerlo magari per più di quel che merita, a rivedere il tuo fallace sistema di sicurezze. Ci penso ora e ancora a Giovanni quando non so con chi incazzarmi per una causa persa.

Sono le 17,30 del 10 gennaio 2015. Nel silenzio ovattato di una stanza affollata sto mettendo calze e scarpe a Francesco Foresta. Me l’ha chiesto sua moglie Donata. Francesco si è appena liberato di un fardello ingiusto che un destino carogna gli ha piantato sulle spalle anzi, a voler essere precisi, sulla pancia. Faccio piano come se non volessi svegliarlo. Lo guardo e mi sembra pacificato. Non c’è lacrima che mi sfugga perché sono pieno di pensieri che, come una cintura di sicurezza, trattengono la mia mente da sballottolamenti. Gliele ho già messe, le scarpe, una sera di ventidue anni prima a Urbino, quando dopo i postumi di una notte brava non voleva alzarsi dal letto per tornare a casa a Palermo. L’ho già visto pacificato dopo una delle nostre cene in cui lui non cucinava, comprava tutto e mi sorprendeva con un vino stellare dicendo: “Vedi com’è ‘sta bottiglia, io non ne capisco niente…”. Alle 17,30 di quel pomeriggio di gennaio rivedo Armando accanto a noi – a me e a Francesco – mentre io infilo le scarpe in quei piedi immobili. Armando fa un gesto inconfondibile, che faceva spesso durante le interminabili riunioni in redazione: allarga le braccia tra noi due e ci prende i lobi delle orecchie sfregandoli delicatamente. Faceva sempre così e noi ridevamo di questo rituale che ci pareva incomprensibile. E che ora mi pare la cosa più naturale del mondo.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

3 commenti su “Eravamo quattro amici al Gds”

  1. Sincero. Il perdono sembra apparentemente contro natura, invece ci libera del macigno del dente del dente e dell’orgoglio

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