Se la Sicilia decide di battere moneta

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Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

L’idea è di quelle talmente geniali da annichilire. C’è la crisi, i siciliani sono in difficoltà economiche, il tessuto produttivo è in necrosi. Servono soldi e siccome soldi non ce ne sono, il deputato pd all’Ars Giuseppe Laccoto ha avuto un’idea, anzi ha avuto l’idea di prendere a prestito un’idea altrui: battere moneta. Il ddl è già stato depositato e ha riscosso l’entusiastico consenso dell’Mpa, che quando si tratta di soldi ha il sesto senso del mentalista Tesei e la visione strategica di Diabolik.
Se il progetto andasse in porto, presto la Sicilia potrebbe quindi avere la sua alternativa all’euro, che si chiamerebbe Grano come la moneta del Regno delle due Sicilie di cui, presi da altre grane, ci si era colpevolmente dimenticati.
Il copyright di tutta questa storia non è però del singolo Laccoto, ma di un’associazione chiamata Progetto Sicilia che propone “un programma di crescita e di sviluppo” da attuare sotto la benedizione della Santa Autonomia, quella che fa miracoli a gentile richiesta.
Fedeli alla visione Poundiana secondo la quale “chi non s’intende di economia non capisce affatto la storia”, questi innovatori del pensiero siculo hanno mescolato matematica, cronaca, futurismo e, probabilmente, un pizzico di scaramanzia per dar vita a un piano che prevede, proprio grazie al Grano, la creazione di 250 mila posti di lavoro: insomma un po’ Berlusconi nella fase pre-condanna, un po’ Alfonso Luigi Marra nella fase pre-Tommasi. (…) Strategicamente si parla di “uno strumento per fronteggiare la crisi di liquidità”. Capito? Quando ci sono pochi soldi in giro, basta stamparne di nuovi. Geniale e annichilente.

Dare dell’idiota a chi lo è

Senza titolo

Cretino

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Si scatenano dibattiti, si mobilitano le segreterie dei partiti di mezzo mondo, ne parlano i giornali, ci si infognano i governi. A pranzo se ne discute a tavola, a cena sul divano. In ufficio e con gli amici è un argomento sempreverde, in tv è un riempipista. Non c’è categoria professionale che possa ignorarlo, perché è ovunque e comunque.
Eppure basterebbe poco per spegnere il suo interruttore, un clic che lo estingua senza traumi e violenze: non argomentare più, non impegnare più il nostro prezioso cervello per un argomento e una persona che non valgono neanche uno sbuffo di impazienza.
Dopo la cazzata sulla Shoa, di Berlusconi basterebbe dire ormai una sola, inequivoca parola.

Cretino.

Dai papà, giochiamo a distruggere la terra

La fortuna di avere un papà che lavora alla Dreamworks.

Sorpresa, l’immondizia non ha le ali

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Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

E’ una questione di coscienza. Cioè di quel campanellino che suona in noi quando, pur essendo soli, agiamo come se qualcuno ci stesse sorvegliando.
L’immondizia non ha né i piedi né le ali quindi se la si abbandona in un parco, il cassonetto non se lo va a cercare da sola. Eppure, per assoluta ed endemica mancanza di coscienza, molti palermitani sono convinti del contrario.
Prendete quel che è accaduto in questi giorni alla Favorita, giorni di festa, di abbuffate e di pic-nic. Il parco che in molti vorrebbero restituito alla città, è stato preso in ostaggio dalla solita orda di barbari che nessuna amministrazione comunale, nessuna truppa di polizia urbana, nessuna campagna di stampa è mai riuscita a scalfire.
Gli Unni della Conca d’Oro si confondono tra i gitanti perbene e, come loro, calano alle prime ore del giorno armati di piatti di plastica e carbonella. Ma la loro missione di conquista, al contrario di quel che si potrebbe immaginare, non è rivolta alle zone più belle del parco, quelle più nascoste, più panoramiche. No, costoro mirano ai ritagli di verde vicini alla strada, alle aiuole dei pochi parcheggi, ai fazzoletti di terra a tiro di scappamento. Perché il loro vero obiettivo è la scampagnata in compagnia dell’auto. Continua a leggere Sorpresa, l’immondizia non ha le ali

Di che umore è la rivoluzione?

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Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

Gli ultimatum sono come certi segreti, mantengono fascino solo se rinnovati. Lo sa bene il governatore di Sicilia Rosario Crocetta che di ultimatum vive e sorride.
(…)
L’ultimatum è strategicamente più importante, quindi più difficile da imbastire: è un annuncio armato, o così o niente, baby.
Crocetta ci ha costruito su una rivoluzione, la sua rivoluzione, nonviolenta eppure spietata. Non c’è amico di cui possa fidarsi, almeno in politica, e infatti per non sbagliare li ha fatti fuori tutti. Adesso persino la sua creatura, il Megafono, dopo soli due anni di vita è in pericolo: altro che crisi, un infanticidio. I suoi compagni di squadra non gli perdonano di gestire la stagione del rinnovamento con Lino Leanza e Salvatore Cardinale, cioè di voler fare la festa di primavera con i crisantemi. Ma lui non si scompone, alza le spalle, e ravana voti nelle sacche dell’opposizione. Perché la vera forza di questo governatore sta nella capacità ipnotica di provocare risse tra le truppe del nemico.
Totò Cuffaro spartiva. Raffaele Lombardo tramava. Rosario Crocetta ubriaca.
Solitamente per giudicare l’azione di un governo servono raffinatezza politica e una discreta conoscenza del codice penale. Con Crocetta è più affidabile la lettura dei fondi di caffè, poiché cresce il sospetto che sia l’umore della giornata a influenzare la road map presidenziale.
Gran shakeratore di alleanze e vero stakanovista della lotta al malaffare, Crocetta non è uomo che miri al risultato poiché crede che sia il risultato che debba presentarsi spontaneamente nel suo ufficio. Non si spiegherebbe altrimenti la sistematica decostruzione di ogni logica consecutio: un alleato va coltivato? No, bisogna farselo nemico. Una nomina pubblica va fatta per merito? No,vale solo il numero di denunce presentate dal candidato all’autorità giudiziaria. Beppe Lumia esiste davvero? No, è un clone crocettiano allevato in un “baccello” tipo Matrix per confondere le schiere di Cracolici.
Qualunque cosa accada, la sua giunta non si tocca perché “il presidente non è stato eletto dai partiti ma dalla gente”. E la gente mormora, ma non lo contraddice. Che magari poi lui si arrabbia e perde sonno. E se dorme male sono guai.

A Bertone fischiano le sante orecchie

 

Pasqua con chi vuoi

Senza titolo

L’Everest e la pesantezza dell’aria sottile

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La tragedia dell’Everest, dove i 12 sherpa morti non rappresentano ancora un bilancio definitivo, mi ha colto proprio mentre sto finendo il libro di Jon Krakauer, “Aria sottile”, che narra del disastro di due spedizioni turistiche nel 1996 sulla vetta più alta del mondo.
Il libro e la cronaca trovano quindi un intreccio unico nelle mie sensazioni, le sensazioni di un appassionato di montagna e di altitudine che però è sempre rimasto prudentemente sotto i quattromila metri. Al di là delle polemiche sulle cordate studiate apposta per alpinisti dilettanti e soprattutto ricchi (una scalata costa intorno ai centomila dollari a persona e non è garantito il raggiungimento della vetta), ciò che mi ha colpito è il ruolo degli sherpa, persone abituate a vivere in condizioni estreme per preparare il percorso dei turisti e delle guide. Quel che sfugge al grande pubblico è infatti il mix di pericolosità e di affollamento che si registra sull’Everest nelle stagioni pre e post monsoniche, quando cioè è possibile trovare condizioni meteorologiche meno sfavorevoli del solito. Il nemico numero uno dello scalatore dell’Everest non è, come comunemente si crede, la roccia (intesa come parete) ma la mancanza di ossigeno. Quindi il segreto è una buona acclimatazione. Racconta Krakauer:

Il piano di rapida acclimatazione seguito (…) dalla maggior parte dei moderni scalatori dell’Everest è notevolmente efficiente, poiché consente di affrontare la vetta dopo avere trascorso il periodo relativamente breve di quattro settimane al di sopra dei 5000 metri, con un unico pernottamento di acclimatazione a 7300 metri. Tuttavia questa strategia si basa sul presupposto che al di sopra dei 7300 metri tutti avranno una riserva inesauribile di bombole di ossigeno; se questo non avviene, le premesse non valgono più.

E chi le porta le bombole di ossigeno? Gli sherpa. Che montano anche le tende e, soprattutto, preparano corde e scalette per consentire ai turisti di superare i punti più complicati. Solo che anche loro si affaticano e rischiano l’edema polmonare o cerebrale, immane minaccia invisibile dell’alta quota. La tragedia di ieri sull’Everest è quindi un catastrofico incidente sul lavoro che – purtroppo o, a seconda dei punti di vista, per fortuna – nulla ha a che fare con la forza di attrazione di quegli 8848 metri, che rappresentano per ogni alpinista un sogno, la missione delle missioni, il punto più vicino a Dio.

E al cospetto del re Sassicaia ci finimmo davvero

Lo scorso anno scrissi di una bottiglia di Sassicaia e delle magie legate a quel vino. L’indomani mi arrivò un’e-mail di ringraziamento dal direttore della Tenuta San Guido che ci invitava in azienda per una visita. Mi sembrava un puro esercizio di cortesia per un post che effettivamente celebrava le meraviglie di quel vino.
E invece.
E invece qualche giorno fa ci siamo ritrovati a Bolgheri, nell’austera tenuta del marchese Incisa a vivere l’incanto della storia di uno dei vini più famosi del mondo. E, ovviamente, a degustare con adeguato trasporto.
Le emozioni di una visita riservata interamente a noi, lontana quindi dal clamore pubblicitario dei tour guidati tipo “gruppo vacanze”, le tengo lontane da queste pagine, per non tradire il patto non scritto sull’elegante riservatezza di un’azienda che non cerca comode postazioni sotto i riflettori. Però ricordatevi che dietro una buona bottiglia c’è sempre buona gente, e che il vino – a differenza del poker e della politica – non conosce bluff.
Pensateci quando avrete la fortuna di assaggiare un Sassicaia (magari del 2004).