Prigionieri nella rete?

di Roberto Buscetta
Da qualche tempo mi chiedo che cosa farei, qualora fossi un dittatore, per scansare o domare il dissenso: se censurare la Rete o se, al contrario, lasciarla totalmente senza vincoli né censure. Sono sempre più convinto che praticherei la seconda ipotesi, per tutta una serie di ragioni.

È innegabile che la comunicazione via Web, se libera e a costi bassi, se non addirittura gratuita, funziona in modo sorprendente ed efficace, e raggiunge in tempo reale l’angolo più sperduto della Terra, giungendo contemporaneamente a un numero incredibilmente alto di utenti. È questa la convinzione della stragrande maggioranza di internauti – me compreso -, i quali si compiacciono della potenza e della potenzialità della Rete, inimmaginabili fino a qualche anno fa. Nulla da obiettare a questa rivoluzionaria modalità di comunicare e d’informarsi, che supera qualunque limite o barriera e scavalca le censure palesemente o velatamente imposte dai vari notiziari ufficiali, permettendo, inoltre, un’interattività molto più democratica e vivace.

Ma la rete ha più ombre che luci, e ora provo a segnalarne il perché.

Il Web permette a tutti di accedere a infinite fonti d’informazione, ma nessuno ci garantisce che siano tutte parimenti credibili e all’altezza di ciò che cerchiamo o dell’argomento trattato. Sappiamo, anzi, che non è così, e che è necessaria una matura ed esperta capacità di discernere le notizie, qualità non equamente distribuita nella popolazione, come succede per tante altre cose. Il problema è per ovvie ragioni più minaccioso per le nuove generazioni, non abituate a reperire notizie in modo più tradizionale, e colpisce maggiormente i meno “attrezzati” rispetto ai più dotati e/o istruiti.

Il problema più inquietante, però, almeno per me -ma ne parla anche Lee Siegel nel suo saggio Against The Machine, ne fa cenno Jaron Lanier in You are not a gadget, ma anche Paolo Landi nel suo lucidissimo Impigliati nella Rete, edito da Bompiani nel 2007- è il ruolo che attribuiamo alla comunicazione nel Web, scambiando troppo spesso quest’ultimo per il luogo reale e unico in cui si svolge, tutta, la nostra esistenza. La Rete è gravida di violenza verbale e riesce a far esprimere il peggio di ciascuno di noi, dandoci l’illusione di indirizzare in modo efficace e, se vogliamo, anche anonimo, i contenuti che desideriamo inoltrare in direzione di uno o più interlocutori. Oltre al probabile (o quanto meno ipotetico) inganno derivato da un presunto anonimato, e al decadimento linguistico, stilistico e morale assegnato alla forma dei messaggi veicolati, vale la pena di soffermarsi sull’efficacia di una frustrazione di qualsivoglia natura consegnata alla virtualità del Web. C’è la convinzione di aver trovato il modo e il luogo giusto in cui poter finalmente dire la propria, sfogare il proprio disagio, dichiarare per filo e per segno ciò che si pensa di qualcosa o di qualcuno “senza mandarle a dire”. E tutto ciò stando comodamente seduti a casa propria o nel proprio posto di lavoro. La verità, però, è che il risultato di tanta immissione di energia, a parte una indubbia facilità, almeno in potenza, nel raggiungere contemporaneamente tanti lettori da cui magari anche ricevere un feedback o un segnale di consenso (vedi, per esempio, Facebook o gli altri social network), si spegne nella virtualità, senza nessun obbligo di output verso la vita reale, quella fatta di quotidianità, di carne e ossa, di emozioni comunicate, di sudore e di tantissime altre cose neppure surrogabili nella second life dell’esistenza in Rete. Io sono convinto che un dissenso manifestato apertamente, vis-à-vis, nei confronti di un interlocutore in carne e ossa, sia esso un individuo, una istituzione o un organismo di qualunque natura, richieda sì più coraggio, più responsabilità e più impegno reale, nel senso di volontà e capacità di rischiare ed esporsi di persona, ma che sia l’unica possibilità, ancora oggi in cui il virtuale non ha totalmente soppiantato il reale, per ottenere visibilità e risultati concreti. L’eventuale dittatore che avesse deciso di lasciare totalmente libera la Rete ricaverebbe solo dei vantaggi, o comunque non avrebbe alcun reale fastidio, se tutte le energie rivolte contro di lui si spegnessero dentro uno schermo, incapaci di uscirne sottoforma di dissensi, ovviamente pacifici e  democratici,  ma massicci e visivamente solidali, o di concrete richieste di risposte tangibili a problemi tristemente tutt’altro che virtuali.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

2 commenti su “Prigionieri nella rete?”

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