Gli operai di Kabul

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Tra gli effetti collaterali, sommersi a malapena dall’onda (spesso anomala) di dolore che scaturisce da un attentato come quello di Kabul, c’è la “dietrologia bilaterale lancinante”: uno stato patologico sopito (che colpisce a destra come a sinistra, per questo bilaterale) che si risveglia quando, purtroppo, arriva la notizia della perdita di vite umane dei nostri contingenti nelle zone calde del pianeta.
Il sintomo più grave è la richiesta compulsiva dell’immediato ritiro delle truppe e l’azzeramento della missione: tutti a casa presto, prima che succeda qualche altra tragedia.
Come se si ignorasse il motivo per cui queste persone, militari di professione, hanno scelto di andare a combattere.
Sì, a combattere.
Perché questa banalità, che ha tutti i connotati dell’oltraggio alla pubblica intelligenza, della missione di pace con gli angioletti che svolazzano sulle code dei diavoli cercando di far proseliti a forza di preghierine dovrà estinguersi, prima o poi.
Quando uno Stato manda le sue truppe armate a presidiare il territorio di un altro Stato compie un atto di forza almeno contro una quota degli abitanti di quella nazione. Non discuto la liceità dell’operazione – nella maggior parte dei casi l’atto di forza è indirizzato contro dei criminali – rimango alla realtà galleggiante dei fatti.
I nostri militari in Afghanistan, nello specifico, sono in assetto di combattimento: non girano scalzi con la bibbia in mano. Sono professionisti addestrati e il potere politico che li ha inviati laggiù li paga (comunque troppo poco) per svolgere la loro professione. Che è quella di proteggere e di proteggersi con le armi, cioè potenzialmente di fare vittime.
Non voglio prendere la questione con i guanti, ma non voglio essere frainteso: non sto, in alcun modo, giustificando l’orribile atto dei kamikaze né sminuendo la difficoltà del ruolo dei nostri militari.
Però credo che bisogna avere il coraggio di chiamare le cose col loro nome, nel rispetto di tutti. Una morte in battaglia per un militare è un incidente di lavoro.
Se non ci sono negligenze, speculazioni o trasversalismi non si chiudono i cantieri navali quando quattro operai muoiono tragicamente nella cisterna di una nave.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

4 commenti su “Gli operai di Kabul”

  1. Sono d’accordo Gery, hai centrato la questione. Emilio Morenatti, fotografo spagnolo, ha perso un piede in Afghanistan a causa di una bomba, nonostante tutto ha continuato a fotografare anche se la morte ha attraversato più volte la sua vita. Il lavoro del fotoreporter nelle zone di guerra non esige atti eroici e neanche ideologici, ma consapevolezza del rischio e preparazione. Cose più o meno simili al lavoro dei “medici senza frontiere” e di altre professioni esercitate tra i fischi delle pallottole. La stampa dovrebbe smettere di raccontare questi fatti con le stesse parole della vicina di pianerottolo. Anche dei soldati professionisti.

  2. Esatto, i soldati oggi sono dei lavoratori e non combattono per difendere la patria dall’invasore ma per un “ingaggio”. Già la parola usata per il contratto dovrebbe chiarire tutto

  3. I soldati non vanno in guerra per un “ingaggio”. Cioè non più di un qualsiasi altro lavoratore. C’è una connotazione surrettiziamente, borghesemente, negativa su di essi. E’ il loro lavoro. C’è come una sorta di aborrimento, di pregiudizio nel considerare che il loro lavoro è la guerra. Come se la guerra fosse una loro colpa. Uno sceglie di fare l’idraulico, uno il giornalista, uno il dottore, uno di andare ad ammazzare il suo prossimo.
    Noi dal calduccio dei nostri privilegi – riscaldamenti, macchine jtd, pavimenti con parquet, titoli di studio, vacanze alternative, il pieno di benzina etc – guardiamo con sufficienza progressista questi soldati (sempre poveri proletari meridionali) come un animalista guarda il cacciatore appostato col fucile tra le braccia.
    Nessuno sembra considerare la storia, il terrorismo integralista, i talebani, il mullah Omar e Bin Laden, lo scenario geopolitico, le cause e gli effetti, il fatto che l’operazione militare sia sotto un’egida quasi universale.
    Vi prego di considerare ancora una volta se non aveva ragione Pasolini quando dopo Valle Giulia (68) si schierò dalla parte dei poliziotti ( meridionali e proletari anche loro) piuttosto che da quella dei figli di papà rivoluzinari che grifdavano loro : “Sbirri, aguzzini, servi del regime”. Rivoluzionari che perlopiù presto sarebbero stati reintegrati felicemente dal sistema borghese.
    Amici la guerra è una brutta cosa ma a volte non basta invocare la “soluzione diplomatica” per evitarla.
    Io da parte mia sono pieno di dubbi e non sento di giudicare nessuno nè di avere verità in mano.
    Il mio commento non è diretto a Gery che anzi mi è sembrato molto prudente nel suo post, ma a quanti non considerano tutta la complessità.
    Fare la guerra non è una decisione dei soldati. Loro sono solo vittime, non dimentichiamolo.

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