Pensiamo al futuro

L'illustrazione è di Gianni Allegra
L'illustrazione è di Gianni Allegra

La questione è quella, ricorrente e inutile come l’appello all’unità dei cattolici, del dialetto nelle scuole. Ne abbiamo parlato ieri e voglio aggiungere un paio di considerazioni.
Detta brutalmente, a me del siciliano insegnato in una scuola media di Partinico o del piemontese insegnato in una scuola di Chivasso non me frega niente. Perché ho 46 anni, vivo nel 2009, lavoro in un’epoca in cui ti becchi un licenziamento come se fosse un raffreddore, voglio leggere quanta più roba possibile, e soprattutto non mi piace perdere tempo in discussioni inutili.
Le tradizioni sono meravigliose quando c’è l’occasione di ammirarle, valorizzarle, coltivarle. Quando i tempi sono difficili e le connessioni necessarie per campare sono complicate, le tradizioni possono tornare serenamente sugli scaffali. Anche perché ogni progetto pubblico ad esse collegato costa un botto di denari.
Rastrellando le idee utili ci si può accorgere che, oggi come oggi, non è più la storia l’unica chiave di lettura del presente. Il galoppo dell’innovazione ha cambiato i parametri dell’apprendimento. Per capire quel che accade in questo preciso momento bisogna guardare avanti: è finita l’epoca in cui ci si faceva strada col passato. E’, se vogliamo, una delle controindicazioni della globalizzazione: se si è tutti virtualmente più vicini, si è tutti meno diversi, si ha la necessità di parlare lingue comuni e non tutte fatte di parole.
Il futuro non c’entra nulla con ciuri ciuri o funiculì funiculà. Il futuro, e soprattutto il destino lavorativo, parlano le lingue più diffuse del pianeta: l’inglese, l’arabo, il cinese, il francese, lo spagnolo. Non il trentino, non il sardo, non il lombardo, non il siciliano.
Bossi e gli altri geni della politica dovrebbero capire che in un paese moderno non è possibile che un cittadino italiano laureato conosca meno lingue di un qualunque straniero immigrato (clandestino e non). A scuola, sin dalla prima elementare, bisognerebbe insegnare la lingua italiana – che è una sola e meravigliosa – e almeno una lingua straniera. Senza altri bla bla e, scusate, senza ulteriori cazzate.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

6 commenti su “Pensiamo al futuro”

  1. Però voglio fare un distinguo, caro maestro. Una cosa è l’insegnamento del dialetto (inutile e sono d’accordissimo: molti lo parlano già, molti non parlano che quello, come ho già accennato ieri) una cosa è l’insegnamento della storia. Quella nazionale. Che, specialmente in l’Italia, non è mai disgiunta da quella regionale (quindi: due piccioni con una fava). Conoscere la storia è utile per il futuro. Offre la lucidità e la coscienza necessarie per costruirlo e parteciparvi. E, ai più arguti, dà l’inestimabile vantaggio di non ripetere le cazzate del passato e opporsi a chi tende a farlo. Io sono sconvolto, per esempio, da quanti ragazzini oggi, si esaltino ai simboli del fascismo e del nazismo, o al primo sceneggiato da quattro soldi che presenta i boss della mafia come Orlandi Furiosi carichi di romanticismo. Poi magari sanno smanettare un computer come programmatori. Questo è frutto di disagio sociale, certo, ma anche di ignoranza della storia. O, per tornare ai discorsi di ieri e all’invocazione romantica di un nonno o di un maestro che insegni accanto al fuoco, magari è frutto di una storia trasmessa male. Esistono anche i nonni stupidi e gli insegnanti idioti. Per il resto, non si va avanti solo conoscendo l’inglese o i software. Come non si va avanti rifiutandosi di imparare le lingue, non collegandosi a internet e ballando ciuri-ciuri. Quindi il problema come al solito, è di equilibrio, maturità, e non è risolto dall'”istituzione” insegnanti o nonni saggi. Come al solito, la soluzione riposa negli individui, non nelle “categorie” e nei programmi di massima. Sull’inveterato e anacronistico provincialismo degli italiani, sono più che d’accordo con te. Ma questo non impedisce di vedere cellulari supertecnologici in pugno a chiunque. Il futuro elettronico da noi c’è, lo si maneggia, se ne fa sfoggio, ma non risolve il problema.

  2. Sono d’accordo con te, naturalmente. Infatti dico che la storia non è più l’unica chiave di lettura. Del resto dell’importanza di aver solide radici abbiamo più volte parlato. Sul falso mito dei nonni e sul fenomeno del nonnismo culturale ci sarebbe da scrivere trattati.

  3. Sottoscrivo. E ricopio l’ultima frase: “Senza altri bla bla e senza ulteriori cazzate”.

  4. @Gery Dipende dai nonni ;-)

    I ragazzini oggi si esaltano ai simboli del fascismo e del nazismo perche’ la concezione di storia che hanno di quel periodo e’ basata su “Call of Duty” o “Metal Gear”, o forse perche’ non hanno un nonno dell’eta’ giusta, che possa raccontare le tribolazioni della guerra e come in quel periodo si viveva con le porte aperte si ma perche’ non c’era nulla da rubare.
    Non dimentichiamo che la storia studiata nella scuola dell’obbligo e’ spesso superficiale e strumentale, mi sarei aspettato, da questi neocampanilisti, una proposta interessante come approfondire lo studio della storia del territorio/regione di appartenenza.
    Nel nostro caso il periodo dei Greci in Sicilia, il periodo Arabo/Normanno in Sicilia e nel Sud, altro momento storico trattato in modo volutamente superficiale dai testi scolastici, del resto nell’anno 1000 erano tutti pazzi, ma al ministero della P.I neanche scherzano.

    Comunque una maggiore conoscenza della storia e delle proprie origini potrebbe evitare di assistite allo scempio di una linea ferroviaria costruita a pochi metri del tempio della vittoria di Himera (googlemaps 37.973900, 13.824100) oppure a questo http://www.flickr.com/photos/aldoplus79/3292181899/

    Candeloro

  5. Io, a Palermo, al liceo ho imparato l’inglese, il tedesco ed il francese.
    Francamente, credo che nel 2009 mi servano molto più del palermitano.
    Infatti, sono la base della mia professione attuale.

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